Con l’avvicinarsi della fine dell’anno liturgico la Chiesa porta la riflessione dei fedeli su quei valori fondanti la vita di ognuno: il fine della storia personale ed il fine della storia più in generale. A questa considerazione si lega uno sguardo profondo su quelle realtà che attraggono il cuore dell’uomo e che possono anche essere di ordine più materiale. La questione che viene posta è sul come queste istanze materiali possano essere vivificate alla luce della fede nel Cristo risorto.
Le letture quindi che la liturgia pone dinnanzi in questa XXXIII Domenica del Tempo Ordinario vanno in questa direzione e tematizzano, almeno se le esaminiamo da un punto di vista marginale, la questione del lavoro, sia quando esso è ordinato sia quando non lo è: infatti la prima lettura presenta l’icona della donna laboriosa, il Vangelo la notissima parabola dei talenti e la seconda lettura il fine profondo del lavoro, ed in generale di ogni azione umana.
La riflessione della Chiesa sul lavoro è, allo stesso tempo, articolata e liberante. È articolata perché cerca di considerare tutte le declinazioni di ordine dogmatico prima e morale dopo di un ambito in cui l’uomo, chiamatovi, trova una certa realizzazione ed è anche liberante perché, individuandone le degenerazioni, fornisce gli antidoti soprannaturali.
Nella Sacra Scrittura Dio è sempre al lavoro: crea il mondo in sei giorni e compie la propria opera con il riposo sabbatico. Strano, pare. Strano perché in una società in cui si viene spesso sollecitati dal lavoro iper-performante, è difficile vedere nel riposo, cioè nel non lavoro, il compimento di questa opera: una cosa non si completa con la sua negazione.
Pare, però, che la stessa Scrittura offra anche una valutazione contraria del lavoro: non atto creatore di cose buone ma punizione: il primo uomo cade e viene punito con il lavoro.
Infine, una terza apparente contraddizione: il lavoro è punizione e quando, per qualche ragione, è liberante non è capace di liberare tutti: Genesi, infatti, racconta che il lavoro di Abele è gradito a Dio ma quello del fratello Caino no, e questo è alla base del primo fratricidio della storia dell’umanità.
Cerchiamo di fare ordine perché è impossibile che la Scrittura, perdendosi in oziose contraddizioni, non riesca a dire nulla all’uomo.
La grande icona della parabola dei talenti ci offre l’immagine di due tipi di lavoratori: quelli che, attraverso il loro lavoro, fanno fruttare i doni ricevuti e quelli che, per un certo angosciante timore, si impegnano piuttosto a non perdere quello che hanno.
Il primo gruppo, quindi, si ricollega all’immagine della donna laboriosa del libro dei Proverbi che comprende il mondo in cui è inserita e cerca, con il proprio lavoro, di restituirgli quel volto autentico di giustizia e di bene che gli è proprio perché uscito dalle mani di Dio che crea solo cose buone. La donna laboriosa (in cui si può agevolmente vedere l’immagine della Chiesa Maestra) coopera alla creazione di Dio perché è immersa nel mistero di Dio ed, operando, attende fiduciosa la manifestazione del proprio Signore (come suggerisce Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi della odierna liturgia). È quindi la speranzosa e fidente attesa di Dio che la Chiesa nutre - e con la Chiesa si intende, chiaramente, tutti i suoi membri - che dà al lavoro il senso autentico ed i risultati: è nella misura in cui lavoriamo per il Regno di Dio e quindi in Dio che i nostri talenti si moltiplicano. Anzi, in questo modo, il lavoro diventa esso stesso manifestazione della presenza creatrice di Dio. È nella misura in cui lavoriamo in medio ecclesiae che il nostro lavoro porta i veri frutti di bene. In questo modo si lavora già ora, hic et nunc, nella gioia del padrone della parabola evangelica. È in questa ottica, dunque, che il lavoro è liberante ed è in questa via che si può comprendere il lavoro di Abele, gradito, e quello di Caino, sgradito. Da un lavoro non accolto può venire quello stimolo di rettifica e di miglioramento. Se si coglie, allora il lavoro diventa sempre forza liberante, anche quando, sulle prime, sembra non accetto e sterile. In questo modo, per grazia, da elemento di punizione diventa materia di riscatto, per tutti.
Il secondo gruppo, spesso visto come l’immagine dei pigri, offre degli spunti di riflessione rilevanti. Il servo che nasconde il talento per paura di perderlo lavora anche lui, si ingegna per trovare un luogo adatto e sicuro per i beni affidatigli. Veglia perché non siano tolti. Ed alla fine restituisce: non ha guadagnato nulla ma, soprattutto, non ha perso nulla: il suo lavoro sembra ben fatto, il suo obiettivo pare raggiunto. Eppure, viene respinto e punito.
Il problema è proprio qui: quando chi lavora incontra sé stesso e le proprie paure allora il suo proprio lavoro non è capace di liberare perché non è capace di incontrare Dio. È un lavoro che si ferma ai sei giorni ma non ha il coraggio di incontrare il settimo giorno. Questa mancanza di coraggio non salva perché è figlia di quella autoreferenzialità che fa concentrare sui risultati immediati piuttosto che far elevare al piano di salvezza. In questo modo viene visto come un bene “il non perdere”: non perdere la propria reputazione, non perdere il controllo del proprio spazio, dimenticando che è proprio perdendo sé stessi e le proprie paure che si porta frutto perché si fa spazio a Dio e lo si incontra. È nello spazio di Dio che il lavoro diventa proficuo, è qui che si incontra, rinnovato, il proprio mondo e lo si possiede pienamente. È nel settimo giorno, quindi, che i talenti si moltiplicano e che l’uomo trova la sua piena realizzazione.
In questo modo si risolvono le difficoltà poste: il lavoro è sempre liberante perché ha come fine Dio che si incontra pienamente nel riposo del settimo giorno in cui i talenti si moltiplicano e l’uomo trova in pienezza la sua realizzazione nell’oggi. Il riposo del settimo giorno è quindi condizione necessaria per un lavoro autentico ed è, allora, spazio di senso. Al di fuori di esso è, quindi, solo stridore di denti, mancanza di senso e sterilità.
Graziano G. Curri, OP