Avanza per la verità, la mitezza e la giustizia
La mia volontà di partecipare al carisma
dell’Ordine dei Predicatori
Tra le domande più belle, forse proprio la più bella, fattemi durante l’anno di prenoviziato, c’è sicuramente quella di Anna mentre mi prendeva le misure dell’abito: “cosa ti aspetti dall’Ordine, Mario?”. E’ stata la più significativa anzi diciamo pure che era ed è la domanda fondamentale, quella grazie alla quale ho potuto sviluppare la riflessione conseguente proprio sull’unum necessarium – e anche per questo non finirà mai la mia gratitudine a questa amica che la Provvidenza Divina ha messo sulla mia strada. La mia risposta dettata appunto dal discernimento dell’unum necessarium, come stavo dicendo, fu la seguente: “mi aspetto la santificazione!”.
Ma la santificazione coincide con quel “fare la verità” che insegna Nostro Signore Il Quale non a caso si presenta così: Ego sum Via, Veritas et Vita (Gv 14, 6). E chi non nota che si tratta di un’altra teofania questa, e rivelazione del Nome di Dio perfettamente equivalente all’ Ego sum Qui sum di Esodo 3,14 ?
Ebbene, posso dire che con il mio ingresso in noviziato quest’anno, inizia un altro capitolo della mia personale (ma non soggettivistica) storia d’amore con la Verità, con ulteriori approfondimenti del mio stesso “Io” (pensante, volente, senziente, ecc.) come “io teologico” (in quanto ontologicamente dipendente dalla Prima Causa, da Dio Creatore e Signore) e “io”, alla fine, “cristologico” (ossia di persona che vive nel rapporto, determinante per l’ultima discretio del senso stesso della vita, con Cristo Rivelatore, Redentore, Santificatore, vero Dio e vero uomo) e “io ecclesiologico” (di membro del Corpo mistico di Cristo Capo, Re, Sacerdote eterno).
Quando, così, dopo anni di lontananza dalla vera fede mi riavvicinai alla Madre Chiesa, ebbi sempre presente e vivo in me il pensiero del sacerdozio. Pensiero amato ma non per questo non combattuto. Pensiero di una vocazione particolare che però già era declinata in un modo ancor più particolare. Inutile e soprattutto insensato nascondere che prendo come modelli, anche, se non proprio soprattutto, sotto l’aspetto della vita sacerdotale San Tommaso d’Aquino, Sant’Agostino, Sant’Alfonso, San Paolo Apostolo. E tutti loro hanno un fattore comune; sono sommi esempi di dottrina, esempi sublimi di dedizione totale alla dottrina di Cristo. Ho compreso nella mia vita di cattolico che non vi è alcuna disarmonia, alcuna separazione, lasciatemelo dire, schizofrenica, tra Cristo e la Sua Dottrina e che chi dice di amare Lui non può non impegnarsi nella stessa conoscenza di Lui e delle cose che Lo riguardano, nell’intellectus fidei, anche se ognuno secondo il suo stato e il valore e i limiti del suo talento. Questa conoscenza è, come il Signore stesso fonte di ogni verità, verbum spirans amorem. I dubbi, le obiezioni, il vizio di impugnare, assurdamente, da parte di un giovane peraltro studente di lettere e filosofia gli insegnamenti della Chiesa Mater et Magistra, hanno essi stessi lasciato il segno. Era impossibile continuare se non avessi capito dove stava la verità, anzi se non avessi posto con tutta la mente ma ancor più con tutto il cuore, come profondità del mio essere stesso, la domanda fondamentale di Pilato: Quid est veritas? (Gv 18,38); e se non avessi accolto la risposta del Signore:” Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimonium perhibeam veritati; omnis, qui est ex veritate, audit meam vocem ”(Gv 18,37).
Da quei momenti di forti dubbi però posso dire di aver avuto l’evidenza ancor più profonda dell’ importanza della conoscenza della verità per la stessa vita dello spirito, per fondare quest’ultima “sulla roccia” e non “sulla sabbia”: per vivere il “bell’amore” che come ci insegna San Paolo “si compiace della verità”, per non vivacchiare (secondo la chiara espressione del beato Piergiorgio Frassati) disorientato nella marea fluttuante dell’instabilità del corso degli eventi, delle burrascose onde delle vicende. Ancora di più, “il «verum» è anche un sollevarsi, un elevarsi, un emergere.” (Cornelio Fabro, Aphorisma de varia philosophia, 990) che esige – e questa è mistica, è ascesi – “uno sposalizio totale dello spirito con la verità, esige una specie di trasfigurazione interiore così che, dall’intimo del nostro spirito, altro non cerchiamo se non il fondamento della verità, e la verità del fondamento. San Tommaso è uno dei pochi spiriti che hanno dato questa dedizione totale” (ibid., 975)
Del resto se la carità non si compiacesse della verità e se “fare la verità” non fosse un altro modo per definire la stessa carità nel suo aspetto essenziale per giunta, chi ci garantirebbe della necessità non solo del Decalogo ma anche del “comandamento nuovo”, dell’amore per Dio, per sé e per il prossimo?
Basterebbe questa semplice riflessione per cogliere tutta la profondità significativa del versetto paolino dell’Inno alla carità succitato!Per tornare a me e alla mia storia d’amore alla verità, fu conducendo queste riflessioni e cogliendone il legame con quelle sul sacerdozio che potei capire quanta ragione avesse Padre Fabro nel sostenere che:
“il dialogo del sacerdote col mondo (se deve esserci) è il dialogo della Verità che salva”
Se è vero, com’è vero, infatti, che in senso universale la Chiesa stessa in sé è chiamata ad essere “testimone della verità”, ogni battezzato lo è in senso particolare, e ogni sacerdote in senso speciale, ma più speciale ancora il sacerdote domenicano che ha tra i vari motti del suo Ordine quello più netto e semplice di tutti che indica la sostanza e il fine dello stesso Laudare benedicere, predicare e dello stesso tommasiano contemplari atque contemplata aliis tradere, e cioè: Veritas. Del resto l’Angelico Dottore stesso, commentando il Salmo 44, dice: Causa processus est propter veritatem, Et hoc vel causa dispositiva, vel finalis. Perché San Domenico allora? Per avanzare per la verità, la mitezza e la giustizia, in quanto al vertice ma al centro stesso di ogni atto di carità c’è la caritas veritatis, di cui l’Ordine domenicano ha fatto il suo scopo precipuo, e a cui voglio offrire la mia dedizione totale per quella maggior gloria di Dio e salvezza delle anime che faceva dire al Beato Padre e Fondatore in lacrime: “Mio Dio, Mia Misericordia, che ne sarà dei peccatori?”. E per giungere, sull’esempio supremo della Santissima Madre di Dio - e sub suum presidium- alla realizzazione finale di quella vita magnificativa che è sostanza e anima di ogni apostolato. Per essere apostolo di questi tempi che sul modello del Messia non può non essere prode che avanza, appunto, per la verità la mitezza e la giustizia, laddove l’avanzare riguarda il progresso verso l’eternità e non verso un avvenire terreno fine a sé stesso come invece vorrebbe l’immanentismo privo del Cielo. Per vivere la vita, respirare lo spirito di quell’Ordine che Benedetto XV nella Fausto appetente die ha definito nel migliore dei modi così:
“…l’Istituto Domenicano ebbe fin da principio la caratteristica di Ordine dotto, e fu costantemente sua cura precipua di risanare i guasti profondi causati dai vari errori e di diffondere la luce della Fede cristiana, dato che nessuna cosa riesce di maggiore ostacolo alla eterna salvezza quanto l’ignoranza della verità e il pervertimento delle opinioni. Non deve pertanto stupire se tutti restarono colpiti e conquistati da questa nuova forma di apostolato, la quale, mentre si basava saldamente sul Vangelo e sulle dottrine dei Padri, tuttavia si faceva apprezzare per la vastità delle cognizioni in ogni disciplina. Sembrò addirittura che la stessa sapienza di Dio si manifestasse attraverso la parola dei frati domenicani.”
E che si gloria della benevolenza che verso di esso nutre la Madre del Redentore che lo ha fatto l’Ordine del Suo Rosario, scuola di vita e di contemplazione, albero fecondo di apostolici frutti!
La mia volontà di partecipare alla vita dell’Ordine domenicano è tutta qui: in queste istanze di amore, di santità, di verità che non posso non vedere implicite nel motto sottostante il busto di San Domenico a San Sisto in Roma: contemplari atque contemplata aliis tradere….per doctrinam! Perché il dono ricevuto della vera fede non sia vano in me ma sovrabbondi e si diffonda nelle anime al fine di raggiungere la vera gioia, quella delectatio (cfr. S.Th. Iª-IIae q. 4 a. 1) a cui si accompagna intrinsecamente la felicità, ultima perfezione dell’uomo circa la quale San Tommaso d’Aquino insegna : non potest esse nisi in visione divinae essentiae (Iª-IIae q. 3 a. 8 ).
Alla Beata Vergine Maria affido la mia vocazione, la mia vita in Cristo: dignare me laudare Te, Virgo sacrata! Da mihi virtutem contra hostes tuos
Pregate per me, Mario.
fr. Mario Padovano, O.P.
(ora novizio della nostra Provincia)