La passione del Signore e il suo amore per l’umanità
“…perché non perda nessuno di quelli che mi ha dato” (Gv 6,39)
Non ho mai visto in vita mia dei condannati a morte, ma posso immaginarli così tanto angosciati da perdere il contatto con la realtà già prima dell’esecuzione; oppure possono diventare talmente incontenibili da gridare disperatamente il terrore della morte e il bisogno di vita.
Niente di tutto questo in Gesù, che in ogni momento della sua gloriosa Passione, che da oggi, come ogni anno, ripercorriamo, non maledice la propria sorte né cerca un modo per scampare alla morte, a qualsiasi prezzo! Io credo che cerchi, al contrario, una relazione con coloro che ancora non comprendono il senso di quel sacrificio; in primis, forse, con i suoi stessi discepoli.
Quella comunione, quella relazione coi Suoi, infatti, inizia nel momento della sua ultima Pasqua, perché stabilisce la nuova Alleanza; cerca la comunione con tenacia incrollabile, pur sapendo che nello stesso istante dell’offerta, l’uomo lo tradisce: in quella Pasqua, con i Dodici, Gesù è, nello stesso momento, tra quei Dodici, anche con Giuda e Pietro; anche a loro, come agli altri, annuncia il loro tradimento, eppure li lascia fare, continua ad amarli fino alla fine, rimanendo saldo al suo posto, stando cioè «in mezzo a voi come colui che serve». E così, nonostante il turbamento, insegna ancora che la carità ‘serve’, facendo a volte finta di non vedere, superando la tentazione di pensare che il sacrificio sia reso vano dall’ingratitudine e dall’indifferenza.
E, forse, nel lungo racconto della Passione questo bisogno di relazione si può riscontrare tra Gesù e i vari personaggi che vi incontriamo, anche con un solo sguardo. Il volto caritatevole di Gesù incrocia, infatti, quei volti che sono un condensato di indifferenza e vigliaccheria, come quello dei farisei, dei sommi sacerdoti e di Pilato; incrocia volti pieno di odio, come quelli della folla inferocita che ha urlato la sua crocifissione; i volti dei soldati spietati che lo picchiano e deridono; dei ladroni; volti pieni di sfida, nonostante lo sfinimento fisico e psicologico, come quello di altri soldati al Golgota, perché “scendesse dalla croce”.
In questa lunga processione di odio, è lecito pensare alla contrapposizione di tanti sguardi che incrociano quello di Gesù, e che portano anche tanta compassione come quello di tanti che non hanno approvato la sua condanna; tanta delicatezza e amore, come quello della sua Santa Madre; tanto aiuto, come il Cireneo.
Ma una delle frasi che fin da piccolo mi colpivano e spesso mi facevano rabbrividire durante la lettura del Passio, era la citazione di Gesù del profeta Zaccaria: «Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge» (Zc 13,7). Nella valanga di personaggi e nel turbinio di situazioni, Gesù non solo dona il suo sguardo, il suo Volto piagato, ma si dimostra ancora pastore perché vorrebbe condurre tutti nel suo ovile. E questo lo fa proprio in virtù della sua intima relazione con gli uomini. Se il pastore manca in un gregge, questo si disperde! È logico: non fa una piega! Gesù lo applica a sé stesso nell’imminenza della sua gloriosa Morte per preparare anche loro al passaggio dall’Osanna al Crocifiggilo! E difatti, umanamente, che ‘relazione’ si può instaurare con questa “gente” armata fino ai denti che ha voluto la morte crudele del Figlio di Dio? Una sola parola: perdono! Anche questi non vanno perduti, nonostante tutto…
Gesù non vuole dispersione; la dispersione è il contrario della comunione; e se Gesù desidera la comunione, la relazione con sé, è perché “a sé” vuole condurre tutti; a sé e al Suo Padre, poiché già loro sono una cosa sola! Tanto costò al Padre il dono del Figlio! Ma la ‘felicità’ di Gesù sta in quella parola: «Tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento»: l’obbedienza al Padre e l’essere esaudito dal Padre: in una dinamica di ascolto dal basso e dall’alto; ob-audire (ascolto dal basso) – ex-audire (ascolto dall’alto).
Gesù sul Calvario ci offre proprio la più grande testimonianza di questa comunione col Padre, insegnandoci a rifuggire dal piano diabolico di pensare sia di essere gli artefici della propria salvezza, sia di trovare salvezza in un modo diverso dalla capacità di donarsi per amore. Se la salvezza è un dono, essa si realizza unicamente nel dono, fino all’ultimo respiro: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».
L’unica cosa certa per un condannato a morte, l’unica cosa certa per noi, è l’amore di Dio, che oggi ce lo dimostra fino all’ultimo!
Fr. Giovanni Ferro, O.P.
Convento di S. Maria sopra Minerva,
Roma