L’Essere, in verità, è Amore
Piero Coda lettore di s. Tommaso
In un saggio pubblicato nel 2008 e apparso nella collana “Contributi di teologia” presso la casa editrice Città Nuova, Piero Coda (già ordinario di teologia trinitaria presso la Pontificia Università Lateranense e ora preside dell’Istituto universitario “Sophia” a Loppiano), dopo diversi contributi già dedicati a una riflessione sistematica negli ambiti della Teologia Fondamentale e Trinitaria, intraprendeva un confronto con uno dei grandi classici del pensiero teologico occidentale (il De Trinitate di s. Agostino), allo scopo di rintracciare le radici e il fondamento di un’ontologia trinitaria, di una speculazione cioè capace di scorgere il ritmo e le tracce della rivelazione trinitaria nel dispiegarsi stesso dell’essere, attraverso quel suo darsi (esse ut actus) all’altro-da-sé come modo specifico e connaturale di essere-sé.
Si trattava in particolare di rileggere quel testo, sia pure facendo spazio a una accurata contestualizzazione storica dell’opera, alla luce di una «precomprensione teologica attuale», che tentasse di riscoprire nella relazione e nel legame con l’altro il locus teologico in cui si attesta fenomenologicamente l’esperienza del Dio Uni-Trino.
La celebre espressione agostiniana “vedi la Trinità, se vedi la carità” (De Trinitate VIII, 8), fondata sul nesso Amante-Amato-Amore, diveniva così punto di avvio di un’analogia caritatis attraverso cui, mediante l’esperienza autentica della donazione agapica all’interno delle normali relazioni interpersonali, è possibile cogliere qualcosa (analogicamente) della stessa vita intima di Dio.
In uno dei suoi ultimi volumi apparsi nella stessa collana, il teologo piemontese (già presidente dell’A.T.I. e ora membro della Commissione Teologica Internazionale) tenta di riproporre la stessa operazione ermeneutica a proposito di s. Tommaso, e in particolare della sua riflessione circa il ruolo e la missione della teologia contenuta nelle prime questioni della Summa theologiæ, allo scopo di
«sprigionarne a nuovo l’impulso profetico, la logica profonda(…) il messaggio degno di fruttificare ancora nel nostro contesto culturale ed ecclesiale». (p. coda, Contemplare e condividere la luce di Dio. La missione della teologia in Tommaso d’Aquino, Città Nuova, 2014, p. 7)
In tale ottica l’excursus del teologo piemontese parte anzitutto da una contestualizzazione storico-culturale della riflessione tommasiana, al fine di meglio coglierne la continuità e l’originalità rispetto al milieu sociale ed ecclesiale del suo tempo. Il carisma della predicazione e dell’annuncio della Parola, tradizionalmente riservato all’ufficio episcopale e da poco assunto dall’Ordine dei Predicatori (con una novità non da poco nella storia della Chiesa) come specifica missione e servizio ecclesiale, viene assunto quale luogo kairologico e carismatico entro cui matura e sboccia la vocazione teologico-ecclesiale di Tommaso. Il modello di tale vocazione è in realtà Gesù stesso, nella sua missione temporale e terrena, nella sua vita e nel suo ministero pubblico. È lui il predicatore che “uscì a seminare”, come Tommaso sottolinea in un sermone tenuto nella domenica di Sessagesima (ottava domenica prima di Pasqua) commentando proprio la parabola del buon seminatore (Lc 8,14-25), alludendo con ciò alla missione temporale del Verbo venuto a condividere la nostra condizione umana, e al suo uscire, così, dal seno del Padre. Tematica che verrà poi ripresa e sviluppata nella Tertia Pars della Summa, all’interno delle questioni dedicate al “modo di vivere di Cristo” (S.th., III, q. 40), allorquando il Magister avrà modo di precisare che la vita contemplativa è sì migliore di quella attiva, ma che la “vita attiva che consiste nell’offrire agli altri, mediante la predicazione e l’insegnamento le verità che si sono contemplate, è più perfetta della vita soltanto contemplativa, perché essa presuppone una pienezza di contemplazione” (S.th., III, q. 40, a.1 ad 2), alludendo con ciò allo stile di vita di Gesù stesso durante la sua vita e il suo ministero terreno, ma anche alla stessa vocazione personale che egli, come Frate Predicatore, aveva abbracciato.
Di qui il passaggio alla lettura tematica dei nodi e dei contributi tommasiani più significativi a sul ruolo e sulla missione della teologia, a partire anzitutto dalla complessa ed equilibrata sintesi operata dal Magister tra
«teologia apofatica (dionisiana), intelligentia fidei (agostiniana) e ratio humana (aristotelica)» (p.40).
Conoscenza certa (anche se non esaustiva) e metodologicamente rigorosa (scientia), ma allo stesso tempo anche sperimentale e affettiva (sapientia) della realtà che indaga, la sacra doctrina vuole essere anzitutto un «dire Dio a partire dal dirSi di Dio» (p. 74), una riflessione in acto secundo, che intende corrispondere a una libera iniziativa divina. Dire infatti che tale disciplina ha Dio per “subiectum” (e non semplicemente per obiectum) significa dire, come nota J.-P. Torrell, che Egli
«non si riduce mai a un oggetto, neanche all’oggetto mentale che il teologo può concepire. Dio soggetto, è una persona che l’uomo conosce e ama-perché Dio si è dato a conoscere e amare». (j.-p. torrell, Amico della verità. Vita e opere di Tommaso d’Aquino, ESD, Bologna, 2006, p.219).
Da qui l’utilizzo di quel registro espressivo metaforico della Rivelazione e della Scrittura che ne è l’attestazione, per esprimere in linguaggio umano il mistero che si auto-comunica e si auto-rivela. Il modus significandi proprio della Rivelazione, infatti, non può che essere quello di un linguaggio sub similitudinem, che nel narrare fatti ed eventi, intende trasmettere attraverso di essi una verità attingibile, ma di cui è attenta a custodire il mistero. Fatta questa premessa epistemologica, la delicata sintesi compiuta da Tommaso tra la componente dionisiana, quella aristotelica e quella agostiniana della sua riflessione, si evidenzia per Coda in modo particolare nella “consideratio de Deo”, delineata nelle prime questioni della Summa Theologiæ, su cui il teologo piemontese si sofferma con attenzione. La porta di ingresso al trattato su Dio è rappresentata dalle “quinque viæ”, in cui Coda coglie un itinerario anzitutto fenomenologico, capace cioè di cogliere
«il darsi dell’essere creato che si offre alla nostra esperienza nelle sue proprietà o qualità essenziali», per poi risalire all’orizzonte «ontologico, che ne offre l’adeguata illuminazione ed esplicazione» (p. 115).
La “prima et manifestior via” indicata dal Magister, a cui tutte le altre in qualche modo si riconducono e di cui sono in un certo senso esplicitazione, è quella che parte dal movimento come dato di partenza fenomenico (“sensu constat”) per risalire poi a un primo motore che non può essere soggetto a sua volta a tale passaggio dalla potenza all’atto, sotto pena di prolungare all’infinito la serie dei motori. Il punto di approdo di tale procedere è l’esplicitazione di Dio come puro atto d’essere, “Ipsum esse per se subsistens” (S.th. I, q. 4 a.2), distante infinitamente sia dall’ente creato, inteso come composto di essenza ed esistenza, sia dall’essere inteso come pura realtà logica, utilizzato ad esempio come copula nel giudizio. Allo stesso tempo però, proprio in quanto sommamente in atto e privo quindi di qualsiasi potenzialità, Dio è anche perfetto, nel senso che nulla manca (o si può aggiungere) alla sua pienezza, summum bonum” (S. th. I, q. 6, a. 2), Colui che è all’origine di tutte le perfezioni esistenti e che tutte le racchiude in Sé in grado eminente. I due attributi quindi, lungi dal contraddirsi o escludersi a vicenda, si richiamano e si spiegano invece reciprocamente, formando così «le due colonne di un sacro portale» (p. 136), che danno accesso all’unico mistero di Dio. La stessa sequenza delle questioni costruita da Tommaso, in cui dall’attributo della perfezione (q. 4) si passa a quello della bontà di Dio (q. 6), attraverso un intermezzo sul bene in generale (q.5), lascia intendere come nell’intenzione del Maestro l’attributo della bontà sia
«coestensivo della sua semplicità ed espressivo del significato più intimo e nascosto del suo Essere» (ibid.).
A questo punto sono tre i guadagni ottenuti da Tommaso (e del lettore che lo ha seguito) con il suo itinerario, su cui il teologo piemontese si sofferma a richiamare l’attenzione. Anzitutto il fatto che il motore-non-mosso tommasiano, a differenza di quello aristotelico, non è solo causa finale delle cose, ma anche causa efficiente, origine e fonte dello stesso atto d’essere degli enti, che costituisce il risvolto ontologico concreto di quella fede nella Creazione inaudita e inconcepibile per il mondo pagano. Il secondo guadagno è quello per cui l’Ipsum esse, in quanto “actualitas omnium rerum” (S. th. I, q. 4, a. 1, ad 3m) può giocare la sua causalità anche sul piano della causalità formale, contenendo in sé in grado eminente le perfezioni di tutte le creature. Di qui il passaggio dal nome divino l’Ipsum esse a quello di summum bonum, che dice non una contraddizione, ma una esplicitazione del primo, in quanto rimanda a quella generosa auto-comunicazione e diffusività di sé del bene, che è anche l’attitudine connaturale all’esse ut actus, la cui prima e più eminente attività consiste proprio nella comunicazione dell’esistenza (atto d’essere) all’altro-da-sé. Ma soprattutto, attraverso la grammatica dell’Ipsum esse per se subsistens e del summum bonum Tommaso può conciliare in maniera mirabile la duplice Rivelazione biblica del nome di Dio, quella come “Essere” contenuta nell’AT (“Io sono”, Es 3, 14) con quella del nome di Dio come “Amore” contenuta nel NT (Dio è Amore”, 1 Gv 4,8). Come già notava Gilson al riguardo:
«Affermare che Dio sia carità non è contraddire che Dio sia essere, all’opposto, è affermarlo una seconda volta; poiché la carità di Dio non è che la generosità dell’Essere, la cui pienezza sovrabbondante si ama in se stessa e nelle sue possibili partecipazioni» (e. gilson, Lo spirito della filosofia medievale, Morcelliana, Brescia, 2009, p. 337).
Il terzo (e ultimo) momento del tracciato codiano accenna infine a una messa in prospettiva della riflessione di Tommaso, a partire da quel “silenzio” a cui il Maestro approda sul finire della sua esistenza, che gli impedisce di proseguire nella composizione delle sue opere (Summa Theologiæ, in primis). Il “non possum” di Tommaso, al di là dell’esatta ricostruzione storica della vicenda, viene inteso come un accenno al fatto che la sintesi realizzata e l’equilibrio raggiunto
«va messo ulteriormente in gioco per essere ritrovato di “nuovo”, secondo la dinamica di morte/resurrezione propria dell’esistenza cristiana e del pensiero cristiano» (p. 154).
Un invito, quindi, a non irrigidire l'insegnamento del Maestro in formule fisse e avulse dal contesto, ma a considerarlo come un orizzonte aperto, da sviluppare e arricchire ulteriormente.
Tra le conclusioni che il lettore può raccogliere attraverso tale confronto con la vocazione teologico-ecclesiale di Tommaso e con l’itinerario da lui tracciato nelle prime questioni della S. th. (e in particolare con la grammatica dell’Ipsum esse per se subsistens e del summum bonum) due se ne impongono in modo particolare, la prima riguardo all’apporto fondamentale che la Rivelazione gioca sulla riflessione metafisica dell’Aquinate, la seconda sul piano di una corretta interpretazione del rapporto tra il suo trattato De Deo Uno e quello De Deo Trino. Sul primo aspetto l’excursus effettuato permette di chiarire che la metafisica di Tommaso si propone non come un’ontologia grigia (secondo l’espressione che Jean-Luc Marion applica a Descartes), in cui la resistenza del reale sbiadisce dinanzi al primato dell’interesse epistemologico, né come un’onto-teo-logia che pretenda di risalire di ente in ente alla ricerca del Summum ens (secondo quel dispositivo che Heidegger ritiene di poter scorgere in tutta la metafisica occidentale), ché anzi Tommaso ha cura di chiarire espressamente che “Dio non è del genere della sostanza” (S. th. I, q. 3, a.5). Essa si offre piuttosto come un’«ontologia teologale» (Dubarle), elaborata da un teologo all’interno di un discorso teologico, che tenta di cogliere nel ritmo stesso del reale il risvolto ontologico della fede nella Creazione e nella Rivelazione trinitaria. Sul secondo aspetto la centralità della nozione di “purus actus” (S. th. I, q. 3, a. 2) richiamata fin dalle prime questioni della S. th. dedicate alla consideratio de Deo, mette in luce che l’intento di Tommaso non è quello di partire da un trattato sull’essenza divina da cui sia possibile poi dedurre la Trinità delle Persone, né di pensare un’essenza indifferente alla distinzione interpersonale, ma di muoversi nella prospettiva del Dio Uni-Trino, che pensa come co-originarie e correlative le dimensioni dell’unità e della pluralità, e che nella generosità e diffusività dell’Essere scorge già un’apertura all’alterità e alla differenza, il dono di uno spazio che lascia posto, nel mistero della sua vita intima, a «un Altro in Dio», per dirla con la bella formula di von Balthasar.
fr. Daniele Aucone, O.P.