La Misericordia creatrice e redentrice secondo san Tommaso d’Aquino
La grandezza dell’agire misericordioso di Dio e della virtù di misericordia che ogni persona è chiamata a praticare è ben espressa da san Tommaso nella Somma di teologia e nei suoi commenti biblici.
Tommaso invita a interrogarsi sulla misericordia divina a partire dall’esperienza umana di avere il cuore triste (miser) nel provare come nostra l’altrui miseria e di voler portarvi aiuto. È per amore del prossimo che percepiamo e sperimentiamo come nostra la sua povertà, la sua sofferenza e il suo bisogno.
E se l’esperienza di essere misericordiosi ci dà accesso allo studio della misericordia divina, l’esempio dell’agire di Dio diventa poi modello e fondamento del nostro essere misericordiosi, sia come creature che come battezzati.
La coscienza del bisogno di misericordia, poi, ci fa sperimentare l’intervento dell’Altro nella nostra vita, per risollevarci, per farci passare dalla tristezza alla felicità (che è propria del vivere dignitoso dell’uomo), dal bisogno alla soddisfazione, dal non essere all’essere (e anche il peccato è un “non essere”, in quanto privazione di bene), per rigenerarci.
La misericordia di Dio, come il suo amore, la sua giustizia, la sua liberalità, sono espressioni molteplici della sua bontà: agiscono congiuntamente e sono un’attuazione unica (uno actu) della sua volontà. Dio, nel suo agire verso le creature, è sempre giusto e misericordioso allo stesso tempo. La misericordia, dice però san Tommaso, deve essere attribuita a Dio in maniera somma (maxime). Ma perché la misericordia ha questo posto supremo tra le molteplici realizzazioni della bontà divina? non è piuttosto una sorta di cedimento (relaxatio), di debolezza rispetto alla giustizia e alla potenza di Dio?
Per san Tommaso, la misericordia divina interviene nell’atto stesso della creazione, che fa passare le creature dal non essere all’essere. È come la radice prima e fondamento dell’agire di Dio verso le sue creature, agisce come causa primaria, esercitando il suo influsso in tutte le opere divine, e in modo più forte (vehementius) rispetto alle altre cause. La giustizia divina, dice Tommaso, presuppone la misericordia e in essa si fonda. La giustizia di Dio, infatti, in rapporto alla sua sapienza e bontà, istituisce l’ordine nella creazione e le debite relazioni tra le creature. Per questo l’esercizio della misericordia, che è al di sopra della giustizia, è come la pienezza della giustizia. La fonda, la completa, la porta a perfezione (I, q. 21, 3-4; cfr. III, q. 43, 4, 2m; Comm. ai Sal. 24, 8; 35, 2-5; cfr. A. M. Ciappi, De divina misericordia ut prima causa operum Dei, Roma, Angelicum, 1934).
Questo ruolo della misericordia nel far passare le creature dal non essere all’essere spiega poi il fatto che essa sia la manifestazione dell’onnipotenza divina, creatrice di ogni bene. E la misericordia divina fa passare dal non essere all’essere il peccatore, giustificandolo e redimendolo dal peccato, che è una condizione di “non essere”. Essa dà così accesso alla grazia, che è partecipazione della vita di Dio e della sua infinita bontà (I, q. 25, 3). La redenzione dal peccato è una rigenerazione dell’uomo.
San Tommaso si interroga poi sulla possibilità che Dio patisca per le sofferenze che affliggono le sue creature. Se l’uomo, unione di anima e corpo, percepisce l’altrui dolore attraverso i sensi e ne soffre corporalmente e spiritualmente, in che maniera Dio, che è spirito, è toccato dalle miserie umane, quelle dei giusti come quelle dei peccatori?
San Tommaso risponde più volte a questa domanda e il fondamento delle sue risposte può essere individuato in questa affermazione: Dio si relaziona all’essere amato, come a se stesso, volendo il bene dell’altro (I, q. 20, 1, 3m). Dio, quindi, prova misericordia solo per amore, in quanto ci ama come qualche cosa di suo (II-II, q. 30, 2).
Ma la misericordia di Dio ci insegna ancora qualcos’altro. Per venire in soccorso alla nostra debolezza, ai nostri bisogni, alle nostre tribolazioni, al nostro stato di peccato, Dio dà qualche cosa di sé: il Padre ci dona il suo proprio Figlio; non un figlio adottato, come insegnano falsamente gli eretici, ma il suo figlio naturale e coeterno (Comm. a Rom. 8, 32). La misericordia divina ci svela pienamente il vero significato del sacrificio di sé, del dono gratuito e totale di sé per l’altro.
Donando il proprio Figlio, il Padre risponde anche a un’altra esigenza del suo amore misericordioso. La misericordia è sommamente propria di Dio, perché si rivolge a tutto ciò che esiste e che soffre la privazione di essere: essa si commuove per ogni sofferenza e peccato che affliggono il creato. Ora, nel Figlio di Dio tutto esiste, come nella causa primordiale e anteriore a ogni azione (ibid.), e a immagine di lui, Verbo eterno, tutto è creato. Quindi, nel dono del proprio Figlio, Dio si fa carico delle creature e dona misericordia a ogni loro pena e difetto. Realizza così l’eccellenza della sua misericordia (I, q. 21, 3).
Se prendiamo la misericordia divina come modello, siamo chiamati a vivere un’attitudine di compassione per tutte le sofferenze altrui, pronti a farcene carico, sentendole come nostre.
Essere misericordiosi significa dare del proprio all’altro, come Dio, che dona il proprio Figlio – il Figlio in cui si compiace e in cui risiede ogni pienezza – per colmare ogni bisogno.
Essere misericordiosi, per san Tommaso, non è un comportamento occasionale ma una vera virtù della persona umana, che qualifica la sua volontà in modo costante e ha come oggetto proprio le miserie e le necessità degli altri (II-II, q. 30, 3). Si tratta di una qualità radicata nello spirito della persona e che, sotto questo aspetto, non fa distinzione tra credenti e non credenti. L’esercizio della misericordia sarà fortificato e illuminato dalla grazia nel fedele battezzato, ma ogni essere umano, indipendentemente dalla sua fede o convinzione nel vivere l’attitudine della misericordia, consapevolmente o inconsapevolmente imita Dio.
Poiché l’agire misericordioso di Dio opera già nella creazione, l’esercizio della misericordia unisce battezzati e non battezzati in opere di misericordia comuni, in cui si manifesta la misericordia divina. L’agire misericordioso, che spesso sollecita il non credente in tante cause umanitarie, è necessario compimento del sentimento di dolore che l’uomo prova di fronte alle sofferenze del mondo. L’esercizio della virtù di misericordia culmina necessariamente nella pratica delle opere di misericordia, corporali e spirituali (II-II, q. 31).
L’impegno sociale della Chiesa, a volte in collaborazione con associazioni umanitarie, non è una deroga alla sua missione evangelizzatrice, ma il luogo in cui esercitare l’amore misericordioso che Dio le infonde e testimoniare al mondo la misericordia redentrice di Dio, nel suo Figlio, Gesù.
L’esercizio della misericordia, sovranamente proprio di Dio, ci rende più simili a lui, a immagine del quale siamo stati creati, e quindi più intimamente uniti a lui nell’amore (II-II, q. 30, 4).
fr. Adriano Oliva, O.P.