Il silenzio è padre dei predicatori
Appena si entra nel museo di san Marco andando verso il crocifisso, sulla sinistra si apriva la porta d'ingresso al coro, il luogo della solenne liturgia quotidiana. Sopra la porta entro una lunetta archiacuta, sottolineata da una cornice a ornamenti floreali, è dipinta, a mezzo busto e in abito corale, la figura di San Pietro martire - con gli attributi distintivi (normalmente sono la roncola conficcata sul cranio, oppure, soltanto il cranio squarciato - come in questo caso – con il sangue raggrumato sulla testa e la fronte).
Visto frontalmente da chi entra, col dito portato sulle labbra chiuse, raccomanda in maniera educata, ma con sguardo fermo, la perfetta osservanza del silenzio. Il silenzio è il “padre dei predicatori”, proclama la regola domenicana. Ma entrando in coro a pregare non basta il silenzio materiale, occorre soprattutto quello interiore, ascetico, mistico e quindi far tacere tutti i sensi per poter ascoltare Dio che parla solo nel silenzio.
Viviamo in un'epoca in cui il silenzio è stato bandito. Il mondo è oppresso da una pesante cappa di parole, suoni e rumori. Credevano i babilonesi che gli dèi avessero inviato sulla terra il diluvio perché infastiditi dal chiacchiericcio degli uomini. Oggi manderebbero ben altro che diluvi. Forse mai come in quest’ultima parte del XX secolo, l’uomo vive quotidianamente in una situazione di anarchia acustica, assediato com’è da troppi rumori visivi e sonori; dunque, mai come ora ha bisogno di silenzio per rientrare in se stesso e riprendere possesso di sé, per sottoporre al suo proprio giudizio ciò che fa irruzione in lui e mette continuamente in gioco l’unità interiore dell’io e la sua capacità di scegliere.
In una situazione del genere lo stesso silenzio rischia di essere non compreso, ridotto solo a un’appendice del rumore, a una parentesi tra un rumore e l’altro. L’uomo dominato dalla chiacchiera e dal rumore smarrisce il gusto della riflessione personale, della contemplazione silente, della individuazione del dovere da compiere costi quello che costi, della preghiera; e, dunque, come aveva ben visto Pascal, prova sgomento, paura, disorientamento nei confronti del silenzio di cui pure ha nostalgia. Non avendo sperimentato che il vuoto della noia o la sua tortura, confonde quel vuoto con il silenzio, che invece è lo spazio proprio e la via insostituibile della vita interiore.
“Il silenzio appartiene alla struttura fondamentale dell’uomo, è il suo cuore”, annotava Agostino. Evidentemente il silenzio autentico non è l’assenza di rumore o la voglia di non dir nulla, il mutismo, bensì l’espressione di ciò che vi è di più profondo nel nostro cuore. E il cuore è appunto il luogo per eccellenza di quel silenzio. Ignorare la dimensione essenziale e inalienabile del silenzio interiore, è ignorare l’uomo. Trascurarla, è trascurare l’umanità dell’uomo. Aggredirla e invaderla indiscriminatamente, è mettere a rischio gravissimo, la possibilità stessa di una vita da esseri umani. Eraclito nel frammento 19 con la solita profondità collega tra loro due aspetti del sempre possibile rischio di disumanizzazione: “Incapaci sono e di ascoltare e di parlare”.
In verità il silenzio è innanzi tutto ciò che ci rende disponibili, tacendo, ad accogliere gli altri: il silenzio, nella sua prima connotazione, è dunque capacità di ascolto: "sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto".L'ascolto fa dell'uomo un orante trasformando la sua vita in un atto di culto; culto in spirito e verità, non circoscritto solo in determinati tempi e luoghi, ma ininterrotto. Certo, l'ascolto non pretende di sostituire quelli che per l'ebreo e il cristiano sono i riti e i sacramenti, ma è un fatto innegabile che solo l'ascolto sa coniugare mirabilmente liturgia e vita, il profumo dell'incenso, come amava dire Evdokimov, con l'odore della strada. Quando il nostro rapporto con Dio è impostato sull’ascolto noi confessiamo e testimoniamo: il primato della rivelazione sulla ricerca;la grazia sul merito;la straordinaria e sempre nuova esperienza della gratuità dell'amore di Dio che instancabile, per primo, cerca l'uomo.
"Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi"(Giacomo 1,22). L'ascolto della parola è stato definito un'esperienza aperta, che non si esaurisce quindi nella semplice ricezione uditiva del messaggio, ma che richiede obbedienza fattiva ed esistenziale. Chiaramente, la parola è efficace in se stessa, e non è condizionata dall'uomo per il suo compimento. La parola, ci ricorda il profeta Isaia: "dura sempre" (40,8).
La parola divina o la si accoglie pienamente oppure la si rifiuta. Non ci sono vie di compromesso. Rifiutare e quindi resistere alla parola provoca nel cuore dell'uomo una delle malattie più temute dalla scrittura: l'indurimento del cuore. Gli ebrei ritenevano che il cuore fosse il centro del pensiero e del volere, più che dell'affettività. Indurire il proprio cuore, quindi, implicava anzitutto caparbia volontà di non comprendere. Il rifiuto di ascoltare significa allora rifiuto di credere e obbedire. Nella concezione biblica della fede, fede ed obbedienza sono inseparabilmente congiunte. I biblisti sottolineano inoltre che il concetto di indurimento è collegato alla teologia dell'alleanza. Se Israele non ascolta, rendendo caparbio e ostinato il cuore, di fatto vanifica il patto stretto con Dio. Aver fatto alleanza impegna Israele all’ascolto del suo Dio.
Diventano sempre più numerose le persone che non hanno né tempo né attitudine interiore all’ascolto. Nessuno ha tempo di ascoltarvi neppure quelli che vi amano e che sarebbero pronti a morire per voi. A morire, appunto, ma non a vivere. Ma senza una radicale apertura reciproca, quale legame umano può mai sussistere? Solo chi nel silenzio interiore discende in se stesso, trova nel suo cuore le ragioni e le attese degli altri. Il nostro Silone lo ha detto in Pane e vino: “Il silenzio interno significa che ogni cosa è al suo posto, ogni cosa è in ascolto.”
Il silenzio, infine, si rivela come la sorgente di ogni autentica parola. Non potrebbe, infatti, esserci l’una senza l’altro. Il parlare autentico, non l’artificiosa e foss’anche raffinata arte oratoria, ma l’eloquenza spontanea, non è forse quella in cui le pause o i silenzi salgono dalla nostra riflessione e si dirigono al silenzio di chi ascolta? In realtà la parola più bella è quella che nasce dal silenzio, quella che non spezza il silenzio, ma lo rende più percepibile. E il silenzio è apertura al mistero. Si capisce allora quanto sia stato nel vero il Cardinal Martini, quando ci ha ricordato come il maggior nemico di Dio non sia l’ateismo moderno, ma piuttosto il rumore.
Uno scrittore greco, Kazantsaki, ha scritto: "innumerevoli schiere di angeli circondano il trono di Dio. Hanno voci d'oro, d'argento e d'acqua chiara, e lodano il Signore, ma da lontano. Non osano avvicinarsi troppo. Uno solo s'avvicina. Chi è? L'angelo del silenzio".
"Apri la bocca soltanto se sei sicuro che ciò che stai per dire è più bello del silenzio", ammonisce un proverbio arabo. L'avvertimento vale, naturalmente, anche quando decidiamo nel nostro cuore di compiere un cammino all’interno di noi stessi.
Ogni nostra azione, ogni nostro pensiero, ogni nostro affetto ed emozione che più ha la possibilità di avvicinarsi a Dio è quella intessuta di silenzio. Solo il silenzio fa scoccare la scintilla della parola che arriva dall'alto. Il silenzio è l'elemento naturale per la discesa della parola sulla terra e dentro di noi. Abbiamo, purtroppo, la tendenza a considerare il silenzio solo come assenza di parole o di rumori esterni. Bisogna invece includervi, in questa assenza, tutto ciò che ci ingombra, tutto ciò da cui ci svincoliamo a fatica, tutto ciò che è inutile.
Sempre un proverbio arabo dice: "non sono le difficoltà del terreno che straziano i nostri piedi, ma i sassolini che si sono infiltrati nelle scarpe".
Questi sassolini sono: la nostra memoria, la nostra personalità, la nostra attività, tutti i nostri piccoli legami, le nostre pur piccole manie nei riguardi di un certo benessere o di nostre piccole comodità. Scrive San Giovanni della Croce: "che un uccello sia sospeso ad una fune o a un filo, egli è comunque attaccato". E Sant'Ambrogio: “Dio non bada a ciò che si dona, ma a ciò che si trattiene per sé”.
Tutto quello che abbiamo detto, resiste dentro di noi in quanto è sostenuto dall'amore per sé stessi. Ora, un amore non si sostituisce che con un altro amore. Se amare significa diventare una cosa sola con l'essere che si ama, si ama veramente solo se si è liberi da ogni legame con tutto il resto. Amare qualcuno vuol dire preferirlo a tutti gli altri. Questo è il vero significato di ciò che definiamo silenzio interiore: il silenzio è l'attesa dell'amore. Esso è il grande mezzo e nello stesso tempo il segno attraverso cui raggiungiamo la nostra vocazione originale: individui aperti sulla spartizione dell'eternità.
Infine, soltanto dal silenzio nasce lo stupore e la lode. Chesterton ammoniva: “il mondo non perirà certo per mancanza di meraviglie; piuttosto per mancanza di meraviglia”.
Le meraviglie non mancano. Sono sempre presenti, puntuali nel mondo: Ma noi non riusciamo più a vederle come ‘meraviglie’ – e quindi a meravigliarcene – appunto perché le abbiamo sempre dinanzi agli occhi. Dunque, senza stupore il mondo sta firmando la propria distruzione. Infatti, soltanto dalla meraviglia nasce l’apprezzamento. E senza apprezzamento anche i doni più belli vengono saccheggiati e distrutti.
“L’umanità non perirà per mancanza di informazione, ma per mancanza di apprezzamento. L’inizio della nostra felicità sta nel comprendere che una vita senza meraviglia non vale la pena di essere vissuta. Quello che ci manca non è la volontà di credere, ma la volontà di meravigliarci” (Heschel)
Il cammino interiore e – come ci ammonisce l’immagine del silenzio - la preghiera nasce, precisamente da un senso di stupore dinanzi alle meraviglie di Dio. E infatti, la celebrazione eucaristica in particolare non è, forse, una delle meraviglie più belle di Dio?
Dallo stupore nasce un gioioso apprezzamento e dall’apprezzamento sboccia la lode. Così pregano gli ebrei: “Noi ti ringraziamo per i tuoi miracoli che sono quotidianamente con noi”. E la Madonna: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta… perché grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”.
Il canto scaturisce dall’inventario delle meraviglie compiute da Dio. Senza meraviglia si spegne il canto, s’interrompe la celebrazione della vita.
In fondo, il Signore, quando ci invita alla preghiera o a far crescere l’uomo interiore -“Anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si ringiovanisce di giorno in giorno” (2Corinzi 4:16) - ci chiede di sostare un istante. Ci rivolge lo stesso invito che ha rivolto a Giobbe: “Fermati e considera le meraviglie di Dio” (37,14).
O siamo ormai, anche noi, incapaci di fermarci?
fr. Vincenzo Caprara, O.P.