La questione gender
Una sfida
per un’antropologia duale
La complessa rete di tematiche che va sotto la denominazione di “teoria gender”, con i suoi intrecciati risvolti sul piano antropologico, etico, sociologico e giuridico, costituisce una delle sfide culturali più rilevanti e urgenti che sta occupando da qualche tempo (almeno in Occidente) lo scenario delle nostre società contemporanee e post-moderne.
Introdotto per la prima volta nella metà degli anni ’50 dallo psicologo e sessuologo neo-zelandese John Money (1921-2006) nell’ambito dei suoi studi sull’ermafroditismo e i fenomeni di intersessualità, il termine gender (distinto dal più comune e utilizzato termine sex) intendeva descrivere quei casi di non perfetta coincidenza tra la sfera biologico-riproduttiva dell’individuo (indicata dal termine sex), e quella della sua identità di genere, per la quale appunto veniva riservato il termine gender.
A giudizio di Money, infatti, nei casi di intersessualità, in cui cioè, a causa della presenza di una morfologia genitale “mista”, nessuno dei due tratti (maschile e femminile) risulta prevalente rispetto all’altro, la questione dell’identità di genere sarebbe per lo più ascrivibile ad un fattore legato al processo di socializzazione (educazione, cultura, accompagnamento psico-terapeutico), e dunque a una variabile socio-culturale, piuttosto che a una pre-definita base biologica (che in tali casi è assente, o comunque non univocamente definita).
Nello stesso periodo si registra anche la fortuna e la diffusione del termine, dovuta al suo utilizzo nell’ambito delle teorie e delle rivendicazioni femministe, che iniziano più o meno negli stessi anni del secolo scorso. Al femminismo della “prima ondata”, incentrato soprattutto sulla rivendicazione di una parità di diritti tra uomo e donna, ma senza una particolare riflessione sulla portata ontologica e antropologica dell’identità di genere (femminismo della parità di genere), ha fatto poi seguito una seconda generazione (la cui espressione più elaborata può considerarsi la scrittrice e filosofa belga Luce Irigaray), più attento a mettere al centro della riflessione una considerazione dell’alterità e della differenza della donna, troppo a lungo occultata da una ragione occidentale che si presume neutra e insensibile alle differenze, ma che in realtà altro non sarebbe che una ragione maschile elevata a rango e paradigma universale (femminismo della differenza). L’ultima generazione femminista è quella che, appoggiandosi sulle filosofie decostruttive della post-modernità (Derrida e Foucault) e sulla teoria dei “performativi linguistici” (enunciati che producono l’effetto che significano) intende il gender come esclusivo prodotto di una costruzione socio-culturale, senza alcun ancoraggio in un dato corporeo o biologico di partenza.
Per Judith Butler la rilevanza della dimensione socio-culturale del gender e del suo corrispondere a modelli indotti dall’esterno, ha come conseguenza quella di uno scompigliamento, di una “sovversione” dei modelli normalmente accettati (non a caso uno dei libri più famosi di Butler si intitola Gender Trouble. Feminism and the subversion of identity) e in particolare del codice binario maschile-femminile. Il risultato di questa sovversione è non tanto la scomparsa o abolizione dell’identità di genere, quanto piuttosto la sua “proliferazione”, la sua esplosione secondo direttrici molteplici e incontrollabili (più di cinquanta tipologie gender sono registrate oggi su FB), che in ultima analisi si rifanno tutte alla libera auto-determinazione dell’individuo. Sul piano normativo e internazionale vale almeno ricordare che la teoria e il linguaggio gender hanno trovato esplicita accoglienza in documenti delle Nazioni Unite, in particolare nella Conferenza mondiale sulle donne tenutasi a Pechino nel 1995.La complessità della questione gender, la sua rilevante incidenza e pervasività sul piano culturale (media, social networks, gender studies, manuali scolastici) e su quello delle rivendicazioni socio-giuridiche (matrimoni tra persone dello stesso sesso, diritti di adozione, revisione del linguaggio familiare e parentale) rendono inadeguata e in ogni caso insufficiente una risposta teologico-ecclesiale e un’azione pastorale che si limitino a una semplice strategia difensiva o a un rifiuto polemico rispetto al gender, e sollecita piuttosto una contro-proposta articolata, capace di dischiudere in positivo le virtualità e le ricchezze della visione antropologica cristiana, sì da costituire anche una risorsa culturale per la società laica e secolare nel suo complesso. Su questa linea sembra essersi mossa anche l’ultima Assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema de “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”, che affronta esplicitamente la tematica gender al n. 8 della Relazione finale: “Una sfida culturale odierna di grande rilievo emerge da quell’ideologia del “gender” che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna. Essa prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia(...)Nella visione della fede, la differenza sessuale umana porta in sé l’immagine e la somiglianza di Dio (cf. Gn 1,26-27). «Questo ci dice che non solo l’uomo preso a sé è immagine di Dio, non solo la donna presa a sé è immagine di Dio, ma anche l’uomo e la donna, come coppia, sono immagine di Dio. […] Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione – nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede – i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna.” (Relazione finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre Francesco-24.10.2015, n.8).
Il confronto con la teoria gender sollecita la riflessione teologico-ecclesiale e l’azione pastorale (anche alla luce della sfida della nuova evangelizzazione) a offrire la visione di un’antropologia integrale, in cui la dimensione socio-culturale dell’identità di genere sia integrata nel quadro di una valorizzazione del registro simbolico ed espressivo del corpo. In particolare una visione antropologica armonica e completa della persona dovrà sottolineare il ruolo della corporeità e della differenza sessuale come dimensioni irriducibili alla sola sfera biologica, ma estese anche a tutti gli aspetti della personalità dell’individuo, e da assumere poi positivamente come risorsa anche sul piano educativo-parentale (la maturazione dell’identità di genere dei bambini può avvenire in maniera più positiva e naturale attraverso una relazione con una coppia parentale di sesso differente che con due genitori dello stesso sesso).
In secondo luogo la riflessione teologica in seno alla comunità ecclesiale è stimolata dalla cultura gender ad approfondire il quadro di una antropologia della reciprocità e della differenza tra uomo e donna, che esprima la co-originarietà e la mutua inerenza delle due identità di genere quali espressione dell’unica immagine divina e riflesso della comunione trinitaria. È quella che Angela Ales Bello definisce una “antropologia duale”, in cui maschilità e femminilità esprimono, per così dire, due declinazioni originarie e concrete dell’unica e comune umanità. Un bel testo di Edith Stein (cui la Ales Bello si richiama) illustra efficacemente questo pensiero: “Sono convinta che la specie uomo si articoli in due specie: specie virile e specie muliebre e che l’essenza dell’uomo alla quale nell’un caso e nell’altro nessun tratto può mancare, giunga in due modi diversi a esprimere se stessa, e che solo l’intera struttura dell’essenza rende evidente l’impronta specifica. Non solo il corpo è strutturato in modo diverso, non sono differenti solo alcune funzioni fisiologiche particolari, ma tutta la vita del corpo è diversa, il rapporto dell’anima col corpo è differente, e nell’anima stessa è diverso il rapporto delle potenze spirituali tra loro. La specie femminile dice unità, chiusura dell’intera personalità corporeo-spirituale, sviluppo armonico delle potenze; la specie virile dice elevazione di singole energie alle loro prestazioni più intense.” (E. Stein, Problemi dell’educazione della donna,1932).
Infine la riflessione sulla differenza di genere può suggerire di assumere l’identità di genere come prospettiva ermeneutico-teologica per una rilettura delle fonti stesse della riflessione teologica (testi biblici, patristici, fonti canoniche e pronunciamenti magisteriali) e delle principali tematiche di interesse della teologia sistematica (Antropologia, Cristologia, Ecclesiologia), ai fini di individuare il ruolo che l’identità di genere vi ricopre volta per volta, sia nelle sue espressioni culturali che nella definizione di ruoli sociali (ed ecclesiali). È quanto si propone ad esempio il Coordinamento delle Teologhe Italiane (C.T.I.), che assume la prospettiva di genere (da non confondere con l’ideologia gender radicale), nella sua duplice componente, biologico-corporea e socio-culturale, ai fini dell’elaborazione di una teologia al femminile (da distinguere a sua volta dalla teologia femminista radicale),attenta soprattutto alle tematiche che riguardano la donna e il suo ruolo all’interno della comunità ecclesiale (imago Dei nella donna, corporeità e sessuazione, spiritualità femminile, ministerialità della donna). In tale ottica la “teologia delle donne” si propone di favorire un avvicinamento della riflessione teologico-ecclesiale al mondo accademico, nel quale cultural studies, women’s studies e gender studies sono ormai generalmente praticati, e di offrire un proprio contributo per una migliore comprensione (e distinzione) di ciò che può essere ascrivibile alla natura e ciò che invece è imputabile a un registro culturale, nella espressione delle identità di genere e nella definizione dei rispettivi ruoli sociali e ministeriali.
fr. Daniele Aucone O.P.