La conversione come dono di sé
Ognuno di noi – specie in questo tempo di grazia che la Quaresima rappresenta – è chiamato a dare una risposta sincera a Dio che lo chiama, prendendo coscienza, con profondità nuova, della necessità della conversione del cuore e della vita. La conversione implica quel particolare “lavoro” su noi stessi, spesso impegnativo ed esigente, che comprende un’accoglienza rinnovata della parola di Dio e una disponibilità confermata ad un’ascesi, anche come capacità che sa valorizzare i tempi più caratteristici della purificazione, perché l’amore di carità in noi divenga gradualmente più autentico.
E tutto questo con un ritorno al Sacramento della Penitenza, come penitenti che hanno scoperto la grazia del pentimento e la gioia del perdono di Dio. Ora, è bene ricordare - contro ogni prassi “magica” della celebrazione della Penitenza sacramentale - che il Sacramento non crea il penitente, ma sacramentalizza la penitenza, cioè la conversione attuata [è questa un’espressione varie volte proposta dal fr. Dalmazio Mongillo OP nei corsi di insegnamento in teologia morale, di cui era professore all’Angelicum].
E’ necessario saper accogliere di cuore detta verità, perché sappiamo, purtroppo anche per esperienza personale, quanto il peccato ci renda schiavi, e nella schiavitù perdiamo la capacità morale di possedere noi stessi, dal momento che siamo già posseduti dal peccato. Se cioè non siamo liberi della libertà dei figli di Dio (vd. Rm 8, 21), non possiamo possedere noi stessi, e quindi non possiamo essere dono per nessuno. Il magistero dei santi ci fa ben comprendere che divenire dono per gli altri richiede una conversione, vera e profonda.
I santi, infatti, proprio perché impegnati in un cammino di compiuta conversione del cuore e della vita, crescendo nell’essere figli nel Figlio, proprio perché liberi, padroni di se stessi, hanno potuto fare dono ai fratelli di se stessi nella verità. Ma cosa significa “essere dono”? Se nella pratica “essere dono” può attuarsi in varie modalità secondo le circostanze e lo stato di vita, nella sostanza significa guardare il fratello con gli occhi di Dio, quindi per il suo valore oggettivo, per la sua dignità, e non per un tornaconto e per una strumentalizzazione. Significa servire il fratello, non servirsene.
Così, “essendo dono” per il fratello, gli “dono” la sua dignità. “Essere dono” significa donare non il contingente e il relativo, ma l’amore di carità, e con questo l’Amore stesso, Dio. Se, ad esempio, un prossimo, mosso dal desiderio di Dio, chiede la nostra presenza, non ci chiede di dargli delle “cose” per quanto sante, ma in definitiva Dio stesso, reso “presente” dalla nostra personale santità: così che, per l’amore di carità, il “dono” di noi stessi diviene “mezzo” attraverso il quale Dio si dona ai fratelli che serviamo. Allora, anche il nostro servizio apostolico e sacerdotale sarà più credibile.
fr. Giuseppe Di Ciaccia, O.P.