DOMENICANI

Provincia Romana di S. Caterina da Siena

Da una dimensione visibile a una invisibile

Il termine cimitero deriva dalla parola greca koimêtêrion che significa dormitorio. Per i primi cristiani la morte era un addormentarsi. Il dormire non fa parte della morte ma del ciclo vitale. Come il dormire è quell’azione che consente all’individuo di rinfrancarsi dalla stanchezza per poi riprendere con maggiore vigore la sua vita, così la morte è un momento del ciclo vitale che consente all’individuo di riprendere con più forza e energia la sua esistenza. Per un corretto uso del linguaggio bisognerebbe evitare di contrapporre la vita alla morte, e parlare piuttosto di nascita e di morte, come due importanti aspetti della vita: l’ingresso e l’uscita nell’esistenza terrena fanno parte entrambe del ciclo vitale. In entrambe le fasi c’è una nascita e una morte. Il neonato muore a quel che era e lascia il suo mondo di sicurezza e di protezione per affacciarsi verso l’incognito. Ma è l’unica possibilità che ha per continuare a vivere, e solo uscendo dal ventre materno potrà scoprire tutto l’amore con il quale i suoi genitori l’attendevano.

Ugualmente nel momento della morte l’uomo lascia un mondo che dava sicurezza per nascere in un altro, ma solo questo passaggio potrà far sperimentare all’individuo la pienezza dell’amore di quel Dio che ora l’avvolge con la sua luce e fa del momento della morte - che nell’antichità veniva chiamato il giorno natalizio, cioè il giorno della nascita, il momento più importante della sua esistenza terrena, il suo coronamento. Sempre per rimanere con questo esempio, proviamo ad immaginare che fossero stati due gemelli.

vincenzo-caprara2    fr. Vincenzo Caprara, O.P.Naturalmente nasce prima uno, l’altro che è rimasto dentro cosa pensa? Che l’altro non c’è più, che è morto. Invece è l’altro che è vivo e tu, se non ti sbrighi a venir fuori, vai incontro alla morte. Questo è quello che ci accade. Per questo la fine di Gesù non è stata descritta dagli evangelisti con i verbi che indicano il morire, ma tutti scrivono che Gesù “lasciò/donò lo Spirito”, (Gv 19,30), o “spirò”. Quella descritta dagli evangelisti non è una scena di morte ma di vita, e il gesto di Gesù è compiuto con piena consapevolezza. Attraverso l’impiego del verbo spirare, mai adoperato prima dei vangeli per descrivere la morte di un individuo, gli evangelisti intendono indicare che la vita non è tolta a Gesù, ma è lui che la dona, comunicando lo Spirito che aveva ricevuto dal Padre al momento del battesimo (Mt 3,16). La vita eterna che Gesù possiede in pienezza e che offre a quanti l’accolgono, si chiama così non per la sua durata indefinita, ma per la qualità: la sua durata senza fine è conseguenza della qualità.

La vita eterna non è un premio nel futuro, ma una condizione del presente, e Gesù ne parla sempre al presente “Chi crede ha la vita eterna” (Gv 3,15.16.36). La vita eterna non va intesa come la condizione dopo la morte di chi si è comportato bene nella vita, ma una qualità di vita che è a disposizione subito per quanti accettano Gesù ed il suo messaggio, e con lui e come lui, collaborano alla trasformazione di questo mondo realizzando il regno di Dio. Tutto questo lo vediamo nella pagina del vangelo di questa commorazione odierna. Gesù dichiara: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,54; Gv 3,36; 5,24; 6,47; 6,54.); “Questo è il pane disceso dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,50-51).

gesù-figlia-giairo     Gesù che resuscita la figlia di GiairoChi, come Gesù, Figlio di Dio, accoglie il suo pane e si fa pane, cioè fonte di vita, per gli altri, ha come il Cristo una vita di una qualità divina, capace di superare la soglia della morte: “se uno osserva la mia parola non vedrà mai la morte” (Gv 8,51). Gesù assicura che chi vive come lui è vissuto, cioè operando sempre del bene, non farà l'esperienza del morire. Questa nuova dimensione della vita e della morte viene da Gesù formulata attraverso l'idea farisaica della risurrezione (ma cambiandone sostanzialmente il contenuto) per parlare agli ebrei, che potevano capire questa categoria teologica (Mc 8,31; 9,31;10,34.), ma ai pagani Gesù non parlerà mai di risurrezione, bensì di una vita capace di superare la morte fisica: “chi perde la propria vita per causa mia e del Vangelo la conserverà” (Mc 8,35), Il passaggio dal vecchio concetto di vita-morte-risurrezione al nuovo inaugurato dal Signore, viene formulato nel vangelo di Giovanni nella risposta di Gesù a Marta, sorella di Lazzaro: “Io Sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11,25).

Gesù non viene a prolungare la vita fisica che l’uomo possiede, sopprimendo o ritardando indefinitamente la morte, ma a comunicare la pienezza della vita che egli stesso possiede, la vita divina, indistruttibile, che permette all’individuo di oltrepassare indenne la soglia della morte. Gesù può affermare che egli è la risurrezione perché è la vita (Gv 14,6). Questa qualità di vita quando si incontra con la morte, la supera. Alla comunità che è di fronte alla distruzione fisica di Lazzaro, Gesù l’assicura che costui vive perché gli ha dato adesione (crede). Per Gesù la risurrezione non è relegata in un lontano futuro, poiché egli, che è la vita, è presente, per questo può dichiarare: “Chiunque vive e crede in me, non morrà mai” (Gv 11,26). A quanti vivono e gli hanno dato adesione, Gesù li assicura che non faranno l’esperienza della morte. Per questo la Chiesa il 2 novembre non celebra i morti, ma i defunti. Per i morti è finito tutto, non c’è nulla da celebrare. Il Dio di Gesù “non è un Dio di morti ma di viventi, perché tutti vivono per lui” (Lc 20,38; Mt 22,32; Mc 12,27), perché, come è scritto nel Libro della Sapienza, “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza; le creature del mondo sono sane, in esse non c’è veleno di morte” (Sap 1,13-14).

Con il termine defunto non s’indica lo stato del morto, ma l’azione del vivente: è colui che ha compiuto una funzione e che ora è trapassato, cioè è passato da un luogo a un altro, da una dimensione visibile a una invisibile.

fr. Vincenzo Caprara, O.P.

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