In cammino verso il Giubileo
Il Beato Angelico dipinse questa crocifissione intorno al 1434-35 per il convento di S. Domenico di Fiesole dove era entrato a farsi frate(1420-22) e in quegli anni ricopriva la carica di Vicario del Priore. Il legame con questo convento fu talmente stretto e forte che ancora oggi viene chiamato Fr. Giovanni da Fiesole.
L’affresco si trova nel Capitolo. Quest’ambiente così denominato era il luogo in cui la comunità dei frati si riuniva per eleggere il priore della comunità, discutere e prendere decisioni sulle questioni conventuali e dove settimanalmente i religiosi si accusavano e chiedevano pubblicamente perdono per le loro mancanze alla regola e alle Costituzioni dell’Ordine. Il Crocifisso del capitolo misura metri 3,65 di altezza e metri 2,50 di larghezza. Un ricco fregio largo 10 cm ricorre tutto attorno al dipinto. Sopra un piccolo monticello s'alza la croce per tutta la lunghezza dell'affresco, e il cartello che sta in vetta è scritto per disteso in ebraico, greco e latino. Risalta sopra un fondo piuttosto cupo la bianca figura del Cristo morto, che sola misura metri 1,70 dal capo ai piedi. Quello che subito colpisce chi lo guarda è la posizione del capo chinato direttamente in giù, senza piegare né a destra né a sinistra. È, inoltre, da sottolineare che tra i crocifissi dell’Angelico questo sia il solo che non abbia ai piedi alcuna altra figura.
In questa rappresentazione visiva della crocifissione, l’Angelico sintetizza la teologia dell’evangelista Giovanni. La passione secondo Giovanni è una contemplazione animata dall'amore e dalla fede. Il suo sguardo non è lo sguardo freddo dello storico, ma lo sguardo di un credente, di un amico. Giovanni ha riconosciuto l’ora centrale della storia del mondo, da cui tutto dipende. Ha visto nel dramma che si è svolto davanti ai suoi occhi la lotta fra la luce e le tenebre, lo scontro decisivo fra la verità e la menzogna. Tutte le forze dell'amore e del male erano concentrate in quel luogo e in quel momento. Giovanni ha visto l'ora del giudizio di Dio, l'irruzione dell'eterno nel cuore del tempo. La passione, per Giovanni, è l'ora della misteriosa glorificazione del Figlio dell'uomo. Per questo egli non dà molto importanza all'angoscia di Gesù e alle umiliazioni che gli verranno inflitte. La crocifissione è il misterioso “innalzamento” di Gesù, che salva quanti credono in lui. In quello stesso momento, per Giovanni, si realizza la morte, la risurrezione e la discesa dello Spirito Santo.
La sovrana libertà del Cristo è la caratteristica principale della passione secondo Giovanni: Gesù domina tutto il dramma con la forza della sua personalità. Tutto questo l’Angelico lo rappresenta con il contrasto tra lo sfondo oscuro e la luminosità del corpo di Gesù (il corpo appeso ad una croce e nello stesso tempo introdotto nella luce pasquale); tra la drammaticità della crocifissione e la serena posizione del condannato che sembra dormire (“Svègliati, perché dormi, Signore?”: Salmo 43,24); tra l’immobilità cadaverica del corpo e il soffio vitale che lo attraverso nel movimento leggero e stupendo del perizoma che svolazza. La collocazione del dipinto nel Capitolo ci aiuta, inoltre, ad una ulteriore lettura: il Cristo morto e risorto incontra la comunità dei frati. La comunità religiosa è continuamente sollecitata a incontrare e a vivere in intimità con il suo Signore: nel coro nel momento della preghiera comunitaria (per la chiesa l’Angelico aveva dipinto tre pale: una Annunciazione, l’Incoronazione della Madonna, e il trittico Maria in trono con il bambino); nel refettorio quando si riunisce per consumare i pasti giornalieri e viene richiamata al banchetto eucaristico (anche nel refettorio, il Beato Angelico aveva dipinto una crocifissione); nella propria cella con la preghiera personale e con lo studio assiduo della Sacra Scrittura e della teologia (nel corridoio delle celle esisteva un affresco in cui era raffigurata la Madonna seduta in trono che regge Gesù bambino: Maria sede della Sapienza. Nel convento di S. Marco, ogni cella ha una sacra raffigurazione).
Il crocifisso che domina nella sala del capitolo dove i frati si radunavano per essere istruiti dal superiore, per confessare a vicenda le trasgressioni alla regola e per prendere le decisioni sagge riguardanti la comunità sta ad indicare che è Lui il vero maestro della vita religiosa, il giusto giudice di ogni nostra azione, la luce che illumina le coscienze quando sono chiamate a pronunciarsi suoi fatti che interessano il bene comune. Il capo reclinato in avanti, nel classico gesto di assenso, è un ammonimento alla comunità dei frati a vivere il loro voto di obbedienza (al superiore e alla comunità) allo stesso modo in cui Gesù vive il suo abbandono totale alla volontà del Padre. Il capitolo è anche, come detto sopra, il luogo dell’accusa delle proprie colpe e del perdono. Nel rito domenicano della vestizione e della professione il candidato viene interrogato con queste parole: "che cosa chiedi?". E il candidato risponde: "chiedo la misericordia di Dio e la vostra". Quella domanda e quella risposta portano in sé una meravigliosa intensità teologica: esse ci rivelano una delle dimensioni essenziali della vita religiosa in seno al mistero della Chiesa di Dio. Prima di essere generosità umana, tensione volontaria e un po’ tesa di chi vuole realizzare un perfetto dono di tutto se stesso, la vita religiosa è generosità divina, dono dell'onnipotenza della misericordia e della fedeltà di Dio. Essa rappresenta, in seno alla Chiesa pellegrinante, e quindi in mezzo al mondo degli uomini, un segno, un sacramento della potenza di Dio e Padre di Gesù Cristo.
Questa comunità di fratelli e di sorelle che condividono la stessa misericordia del Padre, viene dallo Spirito Santo. Al centro di essa non c'è un sogno ma uno sforzo umile e paziente di riconciliazione, sempre più forte del peccato. Una comunità non può costruirsi e restare in vita al di fuori di una logica di perdono. Non è esagerato dire che il perdono è il cuore della vita comunitaria. Non c'è comunità senza perdono perché la riconciliazione è l'unica via storica per la comunione. Vivere insieme ad altri vuol dire scoprire la verità del proprio io: finché uno vive da solo può anche illudersi di essere buono, di saper amare, di essere capace di dimenticare le offese. Vivendo invece con gli altri, comincia a scoprire un pò alla volta un io diverso e imprevisto, pieno di limiti ed egoismi, di desideri insaziabili, di frustrazioni, colmo di gelosia e di aggressività. La vita comunitaria è la rivelazione penosissima delle debolezze e delle tenebre personali, dei mostri nascosti in noi; è il luogo in cui si scopre la profonda ferita del proprio essere e in cui si impara ad accettarla. Se è vero che ognuno di noi è nato a partire da questa ferita, anche le nostre comunità nascono dall'accettazione reciproca delle ferite di ciascuno. Ogni altro modo di costruire la comunione è fuorviante e illusorio e destinato molto presto a fallire. Infine, la totale solitudine del Crocifisso: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Ecco il tratto distintivo di questa morte: Gesù morì non solo abbandonato dagli uomini, ma anche assolutamente abbandonato da Dio. E solo qui si esprime la profondità più profonda di questo morire, una profondità che lo distingue “dalla bella morte”. Una morte, perciò, segnata non da una superiore tranquillità, bensì da un estremo, incomparabile abbandono. Gesù si vide abbandonato non solo del suo popolo, ma da colui al quale si era costantemente richiamato come nessun altro prima di lui. Completamente abbandonato: il Dio da lui annunciato, il Dio benevolo al corrente di tutte le necessità umane, il Dio vicino, il Padre dalla bontà sconfinata ora è assente.
Quel Padre suo, che egli interpellava con una confidenza ignota agli altri, al quale nel suo vivere e agire era rimasto legato in modo assolutamente eccezionale, quel Padre suo non disse una parola. Il testimone di Dio abbandonato da Dio da lui testimoniato! La straordinaria comunione in cui Gesù riteneva di trovarsi con Dio si convertì nel suo straordinario abbandono da parte di Dio. Colui che di fronte al mondo intero aveva annunciato pubblicamente la vicinanza e la venuta di Dio, suo Padre, morendo in questo desolato abbandono si rivelò pubblicamente, di fronte al mondo intero, un senza Dio: un uomo da Dio stesso giudicato, e liquidato una volta per tutte. Questa sconfinata solitudine sta ad indicare non solo il dramma dell'abbandono da parte di Dio e di tutti, non solo la centralità e l'essenzialità del mistero del Verbo fatto uomo e morto per l'umanità intera, ma ci rivela anche una grande verità che può sconcertare: l'incontro non è possibile viverlo e non si realizza se non impariamo a rimanere soli con noi stessi. La vita e la morte la si affrontano da soli. Non vi è dignità senza la capacità di essere soli. La vita come responsabilità interpella ogni essere umano singolarmente. Ognuno di noi di fronte alla vita è chiamato a vivere nella libertà le proprie responsabilità. L’uomo spesso deve scegliere; pur confinato entro il limite della sua esistenza, egli è senza restrizioni nell’esercizio della sua volontà. Collocato al bivio, molto spesso, deve decidere in quale direzione procedere. E in tutto questo è terribilmente solo. Così come siamo soli davanti alla morte. Quando arriva quel momento, possiamo anche essere accompagnati e contornati dall’affetto e dalle cure dei nostri cari e amici. Ma è ognuno di noi che, prima o poi, deve guardare da solo in faccia la morte. La mia. Non quella degli altri. Quando non si sa stare soli con se stessi il rischio che si corre è quello di dare agli altri soltanto il nostro bisogno. Non posso stare bene con la gente a meno che non sia capace di starci bene solo alcune volte.
Se la solitudine mi fa paura, allora accoglierò altra gente non perché mi diletto in essa, ma come soluzione al mio problema. Vedrò la gente semplicemente come un modo per riempire il mio vuoto, la mia spaventosa solitudine, pertanto non sarò capace di rallegrarmi con loro per il loro stesso bene. Perciò è quando uno sta con un'altra persona, che è veramente presente, e quando sta solo che s’impara ad amare la solitudine. Se non è così, quando uno sta con un'altra persona, si attaccherà a lei e la soffocherà! L’incontro può anche partire dal bisogno ma se rimane tale non maturerà mai come apertura alla realtà degli altri e dell’Altro. A tale proposito e in conclusione desidero citare una bella pagina di uno dei più significativi pensatori contemporanei: Lévinas. L’autore riporta un racconto talmudico a cui fa seguito il proprio commento.
“ Allora, Rabbi Elazar ben Shimon riprese: va’alle quattro circa (secondo il calcolo del Talmud, questo indica le 10 del mattino) al caffè. Se vedi un bevitore di vino che tiene in mano una coppa e sonnecchia, informati! Se è un dotto, è che si è alzato presto per studiare; se è un operaio a giornata, è che era andato al lavoro di buon'ora; se è un lavoratore notturno, può aver fabbricato degli aghi e non è andato al lavoro di giorno, ma ha lavorato la notte; ma, se non è nessuno di quelli, è un ladro, e puoi arrestarlo. Il caffè è divenuto parte integrante ed essenziale della vita moderna, che è “vita aperta” soprattutto da questo lato! Una città sconosciuta in cui arriviamo, e in cui non esistono caffè, ci sembra chiusa. Il caffè è la casa aperta, al livello della strada, luogo della socialità facile, senza responsabilità reciproca. Si entra senza necessità. Ci si siede senza stanchezza, si beve senza sete. Pur di non restare nella propria stanza. Voi sapete che tutte le disgrazie provengono dalla nostra incapacità di restare soli nella nostra stanza. Il caffè non è un luogo, è un non-luogo per una non-società, per una società senza solidarietà, senza domani, senza impegni, senza interessi comuni: società del gioco. Il caffè, casa di gioco, è il punto attraverso il quale il gioco entra nella vita e la dissolve. Società senza ieri e senza domani, senza responsabilità, senza serietà - distrazione, dissipazione. Al cinema viene proposto sullo schermo un tema comune, come a teatro sul palcoscenico: al caffè non c'è nessun tema. Si sta lì, ciascuno al suo tavolino, davanti alla tazza o al bicchiere, ci si rilassa completamente al punto di non dovere niente a niente e a nessuno; ed è perché si può andare al caffè a rilassarsi che si sopportano gli orrori e le ingiustizie di un mondo senza anima. Il mondo come gioco, dal quale ognuno può ritirarsi per esistere solo per sé medesimo, luogo di dimenticanza - dell'oblio dell'altro - ecco il caffè […] Non costruire il mondo è distruggerlo.” (Dal sacro al santo: pp.48-49, ed. Città Nuova).
fr. Vincenzo Caprara, O.P.