La via della luce: il discernimento nel carisma domenicano
“Con i giovani non ci si deve spaventare mai. Sempre, dietro alle cose non tanto buone c’è qualcosa che ci fa arrivare a qualche verità”. Così rispondeva Papa Francesco a un seminarista che gli domandava come comportarsi di fronte a giovani ricoperti di tatuaggi.
Spesso, in monastero, sono rimasta molto colpita da ragazze e ragazzi che vengono a fare un ritiro e che, in un primo momento, si avvicinano a noi silenziosi e diffidenti. Dialogando con loro, tocchiamo quegli argomenti che in genere stanno più a cuore ai giovani e che loro hanno timore di affrontare nel dialogo con delle monache.
Quando questo succede, i loro occhi iniziano a illuminarsi. Subito dopo questi incontri, spesso, si avvicinano a una di noi e continuano in privato il dialogo iniziato in gruppo. Ed è qui che abbiamo l’occasione di parlare insieme di Gesù e della bellezza della vita con Lui: proprio quando nasce la fiducia e inizia una sorta di amicizia.
Tempo fa, una ragazza mi ha detto: “Ho bisogno di essere accompagnata nel mio cammino di ricerca. Non sono in grado, da sola, di essere costante e raggiungere ciò che voglio”. I giovani ci insegnano l’umiltà di chiedere aiuto, di tendere una mano, e vivificano il senso profondo della nostra vocazione domenicana, nata per rispondere a una “sete”: quella sete che Domenico aveva percepito nelle persone e che abita il cuore dell’essere umano di tutti i tempi. D’altra parte, ho notato la titubanza di qualche frate di fronte al grande mistero della direzione spirituale: come poter aiutare qualcuno nell’ascolto della voce di Dio? Un confratello ci confidava: “Io stesso ho bisogno di aiuto in questo!”. Penso che stia proprio qui la forza del discernimento nella nostra spiritualità: nessuno di noi può trovare Dio da solo. Ciò che doni agli altri, tu stesso lo ricevi o lo hai precedentemente ricevuto.
Solo in questa interdipendenza reciproca noi riceviamo da Dio la luce. Abbiamo sempre bisogno dell’altro, come ci dice Santa Caterina da Siena. Lo stesso Pietro non può, da solo, portare il mondo a Dio, ma lui e gli altri discepoli “pigliano tanta abbondanza di pesci d’anime che si conviene che chiamino il compagno perché gli aiti a trarli dalla rete, però che solo non può” (Dialogo, CXLVI, 1405-1408). La predicazione è feconda se la si vive insieme e il discernimento domenicano avviene nell’esperienza della comunione.
Non è un caso che il simbolo dell’imminente anno giubilare, che celebrerà gli 800 anni dalla morte del nostro fondatore, sia una tavola attorno alla quale siedono Domenico e i suoi primi compagni. Sopra di essa stanno pochi oggetti: ciò che importa sono le persone, che guardano tutte davanti a sé. Nell’Ordine guardiamo, insieme, nella stessa direzione. Volgiamo lo sguardo del cuore alle persone, al mondo cui siamo mandati. E, innanzitutto, a Dio, che si manifesta proprio “attorno alla mensa”: la mensa dell’altare, la mensa della Parola, la mensa della comunione di vita. La mensa del desiderio e della ricerca del Suo Volto. Il nostro cuore, come dice Caterina da Siena, è fatto per amare e il desiderio è ciò che veramente ci rende simili a Dio, perché è infinito!
La sete di vita, di senso, di amore, di libertà delle persone, ancora oggi, ci parla di quel seme divino che è nascosto nel cuore di ognuno e che attende di essere innaffiato per germogliare e crescere. La terra in cui potrà fiorire e portare molto frutto è l’amore; l’acqua con la quale potrà essere innaffiato è la sapienza. Tutto questo, attraverso la predicazione della grazia.
La comunione di vita è, per noi, il luogo in cui Dio risponde alla nostra “sete” e si manifesta. Si lascia conoscere. Ci parla. I capitoli sono lo “spazio comunitario” in cui ne facciamo esperienza. I nostri santi ci offrono esempi meravigliosi di esperienze di comunione che, nel corso dei secoli, hanno alimentato, in maniera silenziosa e feconda, la vita dell’Ordine, in una condivisione profonda dei beni della grazia, della Parola, dei sacramenti.
Mi viene in mente una bellissima lettera che Santa Caterina da Siena scrisse a quella che sarebbe diventata, un giorno, la Beata Chiara Gambacorti, monaca domenicana e artefice della riforma nei monasteri. Ancora giovane, Tora era rimasta vedova. Dopo aver conosciuto il mondo, gli agi e la bellezza della vita, perse improvvisamente il marito e, con lui, ogni sogno venne infranto. In quel frangente, Caterina le si fece vicina. Le scrisse una lettera intensa, con parole forti e, al tempo stesso, impregnate di tenerezza materna.
Caterina svela, in questa lettera, il proprio cuore di “madre” o di “sorella” spirituale. Sembra chiara la sintonia e la confidenza tra le due donne, che dà alla mantellata senese il “permesso” di parlare a Tora con tanta franchezza. Così, Caterina le dice: “Secondo ch’io ho inteso, pare che Dio s’abbia chiamato a sé lo sposo tuo”, e la assicura che egli, certamente, è giunto al fine per cui fu creato. Continua: “Poiché Dio t’ha sciolta dal mondo, voglio che tu ti leghi con lui; e sposati a esso Cristo crocifisso coll’anello della santissima fede”. E la invita a nascondersi nel costato di Gesù, dove potrà trovare il segreto del suo cuore, cioè la consapevolezza che egli “t’ha amata e t’ama inestimabilmente”.
Con grande forza la invita a entrare in monastero e le prospetta, da subito, le grandi battaglie che dovrà affrontare con se stessa, con le “cogitazioni” del demonio e con gli altri che “ti poneranno innanzi che tu sia fanciulla, e però non stia bene in cotesto stato”.E continua: “Ma tu sia forte e costante, fondata in su la viva pietra; e pensa che, se Dio sarà per te, neuno potrà contra di te. Né credere né a demonio né a creatura quando ti consigliano delle cose che fussero fuora di Dio e della volontà sua, o contra lo stato della continenza. Confidati in Cristo crocifisso, ch’el ti farà passare questo mare tempestoso, e giugnerai al mare pacifico, dove è pace senza neauna guerra”. E conclude: “Ti consiglierei per tua utilità, che tu intrassi nella navicella della santa obedienzia; però che questa è più sicura e più perfetta via, e fa navigar l’anima per questo mare non colle braccia sue, ma colle braccia dell’Ordine” (Lettera n. 262).
La ricerca della via giusta da seguire, della strada da intraprendere, ha sempre bisogno della compagnia dell’altro. Se questa c’è, il Risorto si rende presente tra i “due o tre” che sono riuniti nel suo nome, e dona la sua luce. Tora avrebbe potuto non dare retta ai suggerimenti di Caterina. Colui che è la luce del mondo, però, aveva depositato nel cuore della giovane quella chiamata che ella sentì anche all’esterno, nelle parole della santa senese: ciò che le veniva detto al di fuori corrispondeva a una verità che le risuonava dentro, e la illuminava.
Nella comunione, questa è la conferma che è proprio Gesù a condurre, guidare, indicare la strada. Ma quanto è importante essere “insieme” in questa ricerca! Caterina, d’altra parte, aveva ricevuto da Dio la luce per conoscere il cuore della giovane, perché la amava nella verità. Non desiderava condurla a se stessa, ma a Dio. D’altra parte, se non avesse espresso i doni che le riconosceva e se Tora non avesse accolto l’invito di Caterina, oggi forse non avremmo avuto la Beata Chiara Gambacorti, né la riforma dei monasteri, della quale si fece promotrice. Nella stessa lettera, Caterina aiuta la giovane a leggere gli avvenimenti della propria vita con uno sguardo di fede: niente, infatti, avviene a caso. Quando tutto sembrava finito, in realtà, dal punto di vista di Dio, qualcosa di veramente nuovo stava iniziando!
La nostra ricerca della verità, dunque, non si realizza tanto sui libri, ma sul Libro di Cristo crocifisso: sul libro dell’amore. Ecco perché San Domenico, nella meravigliosa tavola della Mascarella, non sta in biblioteca, ma in refettorio. E non è attorniato solo dai confratelli: fra tutti i volti, uno diverso dall’altro, ci pare di riconoscere anche un volto femminile. Uno solo, a simboleggiare tutte le presenze femminili dell’Ordine e l’importante posto occupato dalla donna, sin dagli inizi, nel sogno di Domenico. E Maria, sede della sapienza, siede da sempre alla tavola dell’Ordine. È lei il canale privilegiato della grazia. Insieme a lei tutti noi, frati, monache, suore e laici, “mangiamo il cibo delle anime” (cfr. Dialogo LXXVI, 1289), per condividere la vita di Dio con tutte le donne e gli uomini del nostro tempo.
Caterina da Siena, che fu vera madre spirituale, nel Dialogo della Divina Provvidenza affronta il tema del discernimento quando parla della “dottrina della luce” o “via della luce” (Dialogo, CIV, 578; CLIV, 95). Nella “Vita”, il Beato Raimondo da Capua riferisce l’insegnamento che la santa senese aveva ricevuto direttamente da Dio e che volle condividere con il proprio confessore. Dio Padre, infatti, l’aveva istruita chiaramente insegnandole che, se un’ispirazione viene da Dio, “quando incomincia, mette paura, ma nello svolgersi rinfranca; comincia con qualche amarezza, ma poi pian piano si addolcisce. Il contrario, invece, succede nella visione del nemico, a causa della sua origine. In primo dà in apparenza un certo piacere, appare quasi verosimile, e attira; in seguito, però, mette nell’animo di chi vede, un senso di pena e di nausea. Ciò è verissimo, perché anche le mie vie sono differenti dalle vie di lui. Infatti, la via della penitenza e dei miei comandamenti, in principio sembra aspra e difficile, ma quanto più si va avanti, tanto più essa diventa dolce e facile”.
Il contrario avviene per la via del vizio. Ma il Padre vuole dare a Caterina “un segno veramente infallibile e sicuro”. Poiché Dio è verità, le ispirazioni che vengono da lui portano necessariamente l’anima dentro una conoscenza sempre più profonda della verità: verità su se stessa e su Dio. Le ispirazioni che vengono da Dio, cioè, conducono la persona a vedere se stessa come creatura: profondamente amata e, proprio per questo, salvata. Da se stessa, essa non sarebbe nulla. Ecco perché le ispirazioni autentiche conducono l’anima a una sempre più profonda umiltà. Nelle ispirazioni del nemico, invece, che è padre della bugia, e non può dare se non quanto è e quanto ha, “si insinua nell’anima una certa propria stima e presunzione di se stessa, che è proprio della superbia, e rimane gonfia e piena di aria”. Ecco, dunque, che “la verità rende l’anima umile, e la bugia la fa superba”. (Vita, n. 85).
Un Ordine nato per portare nel mondo la luce del Verbo fatto carne non può non avere il dono del discernimento. E proprio a motivo del fatto che questa luce non ci appartiene, possiamo essere certi che essa ci assisterà. Innanzitutto, nei nostri cammini comunitari. E in tutti i nostri percorsi di ricerca spirituale e di accompagnamento. La luce di Dio, infatti, ci raggiunge nella comunione di vita e si irradia sugli altri.
Sr. Mirella Caterina Soro, O.P.
Monastero S. Maria della Neve e S. Domenico, Pratovecchio