Senza Rivelazione, che vita sarebbe?
Un bilancio delle festività natalizie
«Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). In questi giorni di grazia, tante volte sono risuonate ai nostri orecchi queste parole; anche se tale netta affermazione di S. Giovanni, è più potente di quanto le nostre labbra possano semplicemente pronunciare.
Essa implica due cose: che Dio non si possa “vedere”, e dall’altra parte che Dio possa essere conosciuto solo se rivelato, e lo può rivelare unicamente chi vive nell’intimità trinitaria: e questi è il suo Figlio, che ce lo presenta come Padre.
Il Natale ci ricorda anche questo: che quell’«Ego sum qui sum» di Es 3,14 è ora nominabile e ‘dicibile’, e si chiama “Padre”: questo sarà il suo «nome per sempre» e questo sarà il titolo con cui sarà ricordato «di generazione in generazione» (Es 3,15).
Fatte queste premesse, potremmo anche fermarci qui. In realtà non è poi così semplice, e anche a chi scrive pare riduttivo concludere in tal maniera un discorso che – spesso e volentieri – è ridotto a pia devozione; basti pensare che nelle varie discussioni o, come si dice, nel dialogo sul monoteismo (riguardo al quale la fede cattolica professa l’esistenza di un solo Dio che è Padre e Figlio e Spirito Santo), la discussione sull’essenza di Dio e sulla possibilità di ‘nominarlo’, è molto diffusa; così come pure il dibattito sul valore dei nomi che vengono attribuiti.
Parrebbe che, circa la ‘denominazione’ di Dio, nessun nome gli sia appropriato e che di Lui nessuna idea ci si possa fare, a motivo della sua trascendenza assolutamente inarrivabile, incomparabile e dunque inconcepibile dalla conoscenza umana, e il cui rischio sarebbe ridurre il tutto a dei limiti prettamente umani. Sarebbe come affermare che di Dio non si può avere nessun concetto, o che ogni concetto a suo riguardo è destinato ad essere equivoco: la soluzione sarebbe che di Dio è meglio non parlare! Tuttavia, qualora questo fosse vero, le conseguenze non sarebbero poi così felici: l’anticamera dell’ateismo si presenterebbe di fronte a noi, nel senso che qualsiasi tentativo di raggiungere Dio sarebbe destinato al fallimento, e la stessa Rivelazione risulterebbe vana e impossibile, per l’impotenza e l’improprietà di ogni concetto o “immagine” che a Dio si riferisca.
E forse per San Tommaso non c’è incubo peggiore di questo! Per questo, da buon teologo, riflette acutamente e ampiamente sui ‘nomi di Dio’ non solo nella Summa theologiæ (cfr. I, q. 13), ma addirittura scrivendo un commento al De divinis nominibus dello Pseudo-dionigi, che risulterà essere a posteriori uno dei testi più luminosi del Doctor Angelicus. Nella Summa è spiazzante: «[Dio] può essere nominato da noi [con termini desunti] dalle creature; non però in maniera tale che il nome, da cui è indicato, esprima l’essenza di Dio quale essa è, così come il termine uomo esprime nel suo significato proprio la natura dell’uomo [quale essa è]…» (S. th., I, q. 13, a. 1). È chiaro il procedimento: se da un lato le cose che il nostro intelletto conosce, come suo oggetto proprio, sono le cose di questo mondo fisico, dall’altro i nostri concetti attorno a Dio derivano dalle creature, che sono effetti di Dio. E anche il modo di essere di Dio non ci è noto, ma solo il suo riflettersi in modo imperfetto nelle creature poiché «intellectus noster non cognoscit eum ut est, secundum hanc vitam – neppure il nostro intelletto, in questa vita, lo conosce così come egli è.»
Comunque sia, il primo concetto che abbiamo di lui è che Egli è Causa prima di tutte le cose, anche se sappiamo che egli è superiore in perfezione a tutte le creature, e, di conseguenza, non ha nessuna delle loro imperfezioni e limiti.
Scriveva il p. Tito Centi: «Per designarLo, usiamo una triplice serie di nomi e di espressioni: con alcuni di essi indichiamo la sua reale quantità di Primo Principio delle cose, Causa Prima Incausata, Fine Ultimo, Esemplare di tutte le perfezioni. Con altri indichiamo la sua trascendenza in nobiltà in tutte le cose: il Perfettissimo, l’Onnipotente, l’Onnisciente, l’Essere supremo, il Sommo Bene… Con altri infine allontaniamo da lui tutto ciò che di lui non è degno: ogni specie di materialità, ogni limite, dicendolo: Incorporeo, Infinito, Immutabile…»Ma sempre nella quæstio 13 della Summa, l’articolo 5 è di capitale importanza a riguardo, poiché qui San Tommaso riassume e condensa in un quadro logico tutto l’insegnamento circa la nostra cognizione di Dio e il valore delle nostre espressioni. Il p. Ramirez così lo commenta: «I nomi riferiscono immediatamente i concetti che la nostra mente si fa della realtà, e mediante essi la realtà stessa. Dunque ci si domanda: i nomi usati a qualificare Dio e le creature, che valore hanno? […] ossia: i nomi comuni a Dio e alle creature esprimono una realtà essenzialmente identica (‘univoca’), oppure affatto diversa (‘equivoca’)? L’Aquinate risponde: né del tutto identica né del tutto diversa; ma in qualche modo, ossia proporzionalmente, simile, dunque analogica»
Il nostro ragionamento potrebbe continuare; anche se è solo un accenno a tutta la questione dell’essenza di Dio. Comunque sia, il grande regalo, magnifico, eccezionale che il nostro Dio e Signore Gesù Cristo, nascendo, ci ha fatto è stato quello di rischiarare i nostri dubbi, le nostre difficoltà a comprendere Dio, dal momento che – appunto – «Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Con ciò non vogliamo liquidare il sublime discorso attorno all’Essere di Dio! Ma, se ci pensiamo… Chi altro che sia estraneo alla vita divina, che non fosse ‘veramente’ il Figlio di Dio, sarebbe in grado né di pronunciare il suo vero nome e di manifestare Dio? Lo ripetiamo: se questo nome restasse nascosto o innominabile, e il volto divino assolutamente incomprensibile, certamente l’uomo resterebbe confuso, disorientato, smarrito, ricercando l’ignoto, e il suo culto ridotto ad ‘onorare’ e pregare un qualcosa di enigmatico che incombe con la sua inaccessibile trascendenza.
Ecco perché la Rivelazione di Gesù appare in tutta la sua “grazia” per noi: questa Rivelazione, in un certo senso, ‘supplisce’ alla difficoltà, alla lentezza e all’imperfezione della ragione nel suo percorso verso Dio; se da un lato la Rivelazione ci delinea i tratti razionali del volto divino, dall’altra ci parla della sua vita ‘interiore’, disvelandoci la sua identità di Padre. Ora, Cristo stesso, con la sua nascita, con la sua morte e risurrezione, è l’epifania di Dio, il segno del suo impensabile amore e della sua condiscendenza. Dio irrompe nella nostra storia ‘mediante’ Cristo come quella Carità che, dall’eternità, ha concepito e voluto lo stesso uomo perché fosse oggetto della sua eterna misericordia.
E difatti, anche al di fuori della Rivelazione l’uomo potrebbe avvertire delle «impronte» di Dio che sollecitano la sua considerazione a ricercare “il sempre Oltre”, anselmianamente parlando; tant’è vero che l’Angelico (cfr. S. Th., I, q. 2, a. 1), arriva a riconoscere la presenza, nell’uomo, di una certa conoscenza «naturale» (seppur vaga e confusa) di Dio, nella misura in cui è presente in lui il desiderio della beatitudine. Tuttavia questo desiderium naturale videndi Deum, è destinato a compiersi solo nella Trinità, e solo qui si conclude la rotta faticosa della mente dell’homo viator verso Dio (cfr. Contra gentiles, III, 50).
In un certo qual modo, la Rivelazione ci ha reso la vita ‘vivibile’, «poiché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Cristo» (Gv 1,17), che ci ha fatto conoscere il Padre: ecco perché vale la pena celebrare il Natale del Signore!
fr. Giovanni Ferro, O.P.
Convento di Santa Maria sopra Minerva