L’educatività alla fratellanza nelle università
In questo mio modesto intervento vorrei semplicemente portare l’attenzione sul ruolo dell’università nel promuovere la fratellanza dei popoli, non soltanto direttamente, cioè attraverso programmi educativi finalizzati allo scopo precipuo, ma anche indirettamente, usando consapevolmente quella che nel titolo ho chiamato “educatività”, riferendomi alla filosofia realistico-dinamica del padre salesiano Tommaso Demaria.
A tal fine, partirei rimarcando come la fratellanza sia iscritta nel DNA dell’università, sin dalla sua origine nel Medioevo. Come sappiamo tutti, in Europa le prime università nascono intorno al XIII secolo, quando però il termine “universitas” non designava quella che oggi noi chiamiamo università, bensì una corporazione: c’era l’universitas scholarium, cioè la totalità degli studenti, la corporazione degli studenti, c’era l’universitas magistrorum, cioè la totalità, il gruppo dei docenti; erano, queste, corporazioni distinte per ruoli, ma anche per aree geografiche di origine dei membri, come la universitas degli studenti Citramontani e di quelli Ultramontani, e così via. Le varie “universitas” dei centri di studio che noi identifichiamo come università medievali nascono così ad immagine delle coeve corporazioni artigiane, e uniscono comunità coese e più o meno omogenee, al fine di difendere e sostenere i membri nei loro diritti e nelle loro prerogative, come ogni altra corporazione.
Una grottesca storia realmente accaduta ci aiuterà a cogliere meglio la realtà di tali universitas medievali e della fratellanza che queste realizzavano. Questa storia è riportata in un interessante articolo sulle condizioni di lavoro dei professori dell’università di Parigi nel XIII secolo, dal P. Battaillon, per molti anni presidente della Commissione Leonina.
Citando le memorie di Johannes de Malignes, il P. Battaillon ricorda cosa causò lo sciopero generale di tutta l’università di Parigi del 1281: il professor Ugo di Parma, reggente di medicina, uomo discreto, onesto nei costumi, lodevole nella condotta ed eminente nella scienza, stava innaffiando un vaso di basilico sulla sua finestra; doveva essere già tardi la sera o molto presto la mattina, perché era scalzo, in camicia da notte; la sfortuna volle che il malcapitato non misurò bene la quantità d’acqua e che questa trabordò dal vaso e andò a bagnare una pattuglia di polizia che passava la sotto in quel momento. Le guardie si sentirono offese, sfondarono la porta, arrestarono il povero professore nella sua mise, gli diedero un colpo in testa con una chiave (all’epoca erano molto grosse e pesanti), lo trascinarono in strada; addirittura i loro cavalli lo calpestarono un po’ ma, mentre erano sul punto di portarlo alle regie prigioni nonostante le rimostranze dei vicini, quando si accorsero della ferita che gli avevano procurato con il colpo di chiave, lo rilasciarono. Quella fu una violazione evidente dei privilegi accordati all’università che comportavano il divieto per le guardie del re di arrestare un suo membro, tranne che in casi di gravi crimini e di ribellione, e comunque mai un professor reggente; se ci fosse stato un arresto, il presunto colpevole avrebbe dovuto essere rimesso immediatamente nelle mani dell’autorità ecclesiastica; mai un universitario avrebbe potuto essere imprigionato in una prigione laica. Ci fu allora una protesta di tutta l’università contro le autorità civili e poiché quest’ultime non fecero ammenda del sopruso subito dal povero reggente, i professori, in virtù della bolla Parens scientiarum, [di Papa Gregorio IX] decisero di entrare in sciopero1.
Potremmo dire che le universitas medievali incarnavano una forma di fratellanza, limitata alla protezione dei membri del gruppo e dei loro privilegi e prerogative.
Se nelle nostre università ritroviamo le propaggini dell’organizzazione delle università medievali, anche per ciò che concerne la fratellanza, ad esempio con i rappresentanti degli studenti e del personale amministrativo nei consigli dei dipartimenti e nel senato accademico, le università, insieme a tutta la società, hanno subito un’evoluzione, che interessa anche la fratellanza. Cercherò adesso di delineare brevemente la nuova forma di fratellanza alla quale sono chiamate a dare un contributo le università. L’evoluzione della società e della cultura ha portato, nell’epoca moderna, ad una nuova accezione del termine “università”, che si riferisce oggi, non più alla corporazione, ma all’universalità del sapere. L’università è il luogo dell’insegnamento e della ricerca del sapere, una comunità di persone, studenti, docenti e personale amministrativo riunite per lo studio e la trasmissione del sapere. Si è passati così dall’universalità limitata, e quindi alla fratellanza, di un gruppo coeso per interessi, di studenti e docenti, all’universalità, e quindi alla universalità del sapere, insegnato nelle università moderne in tutto il mondo.
E il sapere, in quanto potente principio di coesione interculturale, è un veicolo e promotore della fratellanza dei popoli. Dalla fratellanza di un gruppo, stiamo passando progressivamente alla fratellanza di un pianeta, e questo grazie anche all’università, attraverso, in primo luogo, quella che possiamo definire la globalizzazione del sapere tecnico-scientifico. Come osserva giustamente il filosofo e scienziato Mons. Gianfranco Basti, l’universalizzazione del metodo scientifico moderno ha favorito la globalizzazione del progresso tecnologico. Con un eloquente esempio, Basti illustra come questa crescente globalizzazione del sapere scientifico e tecnologico sia possibile grazie alla formalizzazione del linguaggio scientifico:
In una parola, un cinese, per esempio, prima dell’estensione del metodo assiomatico a tutte le scienze teoriche ed applicate a base matematica, per capire ed appropriarsi adeguatamente, anche solo a livello applicativo di una disciplina scientifica, avrebbe dovuto studiarsi almeno due o tre lingue occidentali, studiarsi qualche secolo di storia europea e americana, non solo scientifica, oltre che studiare la matematica e la disciplina scientifica in questione in una o più di queste lingue e impratichirsi delle varie tecniche sperimentali e di laboratorio sottese a alle diverse teorie, con uno spreco di tempo e risorse facilmente immaginabile. Quello spreco di tempo e risorse intellettuali che a tutt’oggi ancora occorre per impadronirsi adeguatamente di una disciplina o di una metodologia filosofica o teologica di un’altra cultura e che rende così difficile e lento il progresso del dialogo interculturale. Viceversa, oggi, il medesimo cinese, grazie all’uso di un unico linguaggio simbolico, e alla cristallizzazione di un sapere scientifico di secoli, se non di millenni, in pochi, assolutamente univoci assiomi, ciò̀ che prima avrebbe richiesto decine e decine di anni di studio, oggi richiede tre o al massimo i cinque anni di una buona laurea scientifica. In questo modo, la Cina, come l’India o la Corea del Sud, possono sfornare ogni anno centinaia di migliaia di scienziati e tecnici di livello ed agguerriti, in grado di spostare in due decenni l’asse dell’economia e dello sviluppo mondiale da Occidente a Oriente, come sta avvenendo2.
Se c’è stata la globalizzazione della tecnologia e del sapere, però, continua Basti, non è successo la stessa cosa per le scienze umanistiche, dove è mancata una formalizzazione analoga a quella tecno-scientifica, formalizzazione che avrebbe permesso la comunicazione delle culture tra di loro, senza dover confluire in un’unica cultura globale. 3 con i conseguenti rischi di “opposizione violenta al progresso scientifico e tecnologico, da parte di popolazioni escluse dal “banchetto” di questo progresso sbilenco, non solo nei paesi in via di sviluppo, ma anche nei paesi del cosiddetto “primo mondo”, dopo la recente crisi economica pensata ad arte per eliminare da questi paesi la cosiddetta “classe media””.4 Basti si spinge fino a collegare, non senza ragione a mio avviso, le reazioni terroristiche di varia natura ed i vari conflitti “etnici e localistici” a quello che chiama “appiattimento/vanificazione degli umanesimi tradizionali”, comprendendo in questo appiattimento anche le religioni.5
Nota infatti Basti che l’universalizzazione solamente tecnico-scientifica tende irrimediabilmente alla “distruzione delle culture e delle religioni tradizionali, per l’asservimento della tecnologia ai poteri “forti” trans-nazionali dell’economia e della finanza”,Come soluzione agli aspetti negativi della globalizzazione ed ai conflitti che questa produce a causa della difficoltà di dialogo tra culture e religioni “obbligate” a ritrovarsi nello spazio sempre più piccolo di quello che una volta si chiamava il villaggio globale e alla crescente istantaneità delle relazioni, Basti propone la formalizzazione delle scienze umanistiche, che lui stesso sviluppa nella sua ricerca filosofica, partendo dalla formalizzazione della metafisica e dell’etica di San Tommaso d’Aquino.6 Se è vero, come afferma Basti, che la formalizzazione del metodo tecno-scientifico abbia svolto e svolga tuttora un ruolo centrale nell’universalizzazione del sapere, e quindi della globalizzazione, questo fenomeno si realizza all’interno di una trasformazione più generale della realtà che è prodotta dall’economia industriale. Il filosofo Tommaso Demaria ha mostrato come l’economia industriale sia dinamica, sia cioè a ciclo continuo, con un ritmo attivistico senza interruzioni, sia auto-costruttiva e costruttiva, nel senso dell’autocostruzione di se stessa e della costruzione della nuova società dinamica secolare, sia totalizzante, investa cioè la totalità delle cose umane, traducendole tutte in realtà economica o conferendo a tutte un aspetto economico (tutto diventa monetizzato o monetizzabile), come produca una spinta universale, come cioè tende a tradursi in un’economia unica, a dimensione mondiale, attraverso l’unificazione e l’uso generalizzato delle tecniche, attraverso l’unificazione del mercato, l’intensificarsi dei rapporti economici, e come produca un’unificazione spazio-temporale del mondo, che sperimentiamo ogni giorno di più e che, secondo Demaria, dal punto di vista teologico ed escatologico, corrisponde alla tendenza all’unificazione spazio-temporale del mondo del Corpo mistico, che è la Chiesa.7
Con i nostri filosofi Basti e Demaria potremmo affermare che, ontologicamente parlando, e parafrasando un passo della lettera ai Romani di San Paolo,8 tutto concorre alla fratellanza dei popoli e tutti noi siamo chiamati a comprendere questa realtà che tende all’unificazione del mondo, che è una delle caratteristiche principali del cambiamento d’epoca a cui Papa Francesco fa spesso riferimento. Dobbiamo adesso chiederci quale sia il ruolo dell’università in questo inarrestabile meccanismo globalizzante che, in qualche modo, ci “costringe” a vivere nella fratellanza dei popoli. L’essenza dell’educazione è di preparare a vivere ed a agire in un dato modo; l’educazione forma e riproduce, più o meno consapevolmente, una visione del mondo, dalla quale, poi, si passa necessariamente alla costruzione del mondo secondo quella data visione.
L’importanza dell’educazione per la formazione della società in cui viviamo è capitale. Strictu sensu, l’educazione di una persona avviene attraverso “istituti appositamente creati”, scuole e università in primo luogo, e “stimoli significativi che raggiungono l’individuo”. Mentre gli “stimoli significativi”, in realtà sono praticamente infiniti, perché, il “contatto” e/o la relazione con ogni essere (ente) è causa di conoscenza e quindi, in un certo senso, di educazione. Lato sensu, possiamo dire che è educazione ciò che prepara a vivere in un dato modo, attraverso l’interazione tra le capacità innate dell’essere umano e gli enti con cui viene in contatto, interazione mediata dalla cultura in cui queste interazioni hanno luogo. Ogni ente conosciuto da un essere umano ha un valore educativo, poiché, nel suo modo di essere e di agire, “insegna” un modo di vivere.
In questo senso parliamo di educatività, che è da comprendersi come la facoltà intrinseca di “insegnare” a vivere ed agire in un dato modo, che ogni ente storico, cioè gli uomini e ciò che da essi è prodotto, porta con sé per il solo fatto di essere e di agire.
Se è vero che anche gli enti naturali, cioè gli enti esistenti in natura a prescindere dall’esistenza e dall’azione dell’essere umano, come un animale o un fiume, in un certo senso hanno una certa educatività, sono gli enti storici, cioè gli esseri umani e gli enti da loro prodotti, quali le famiglie, le aziende, le università, le città, e così via, che costituiscono quella che possiamo chiamare la leva dell’educatività, che è frutto ed allo stesso tempo contribuisce alla costruzione del mondo secondo una determinata visione. In altre parole, la costruzione del mondo secondo una visione è “insegnata” direttamente attraverso gli “strumenti” specificamente educativi, come la scuola, l’università, ecc. In questo caso si parla appunto di educazione, ma la stessa visione è trasmessa indirettamente dagli enti storici, per il solo fatto di essere ed agire in un modo e non in un altro: questa è l’educatività. Consideriamo, ad esempio, l’educatività di un’azienda. Il modo in cui è organizzato il lavoro, se gerarchico-piramidale oppure collaborativo, il modo in cui sono disposti gli uffici, se in un unico spazio senza divisioni oppure in piccole stanze separate, il modo in cui sono commercializzati i prodotti, e così via, trasmetteranno, in primo luogo a chi lavora in questa azienda, un certo modo di vivere e di agire, “insegnandolo” indirettamente. Ciò si può dire di ogni ente storico, come la famiglia, per fare un altro esempio, che insegnerà un modo diverso di vivere e costruire il mondo a seconda che sia una famiglia gerarchico-patriarcale, frutto del peccato originale, oppure una famiglia amoroso-pericoretica, ad immagine di Dio, e così via. Anche l’università, in quanto ente storico, per il fatto di essere organizzata in un certo modo, a tutti i livelli, trasmette una data visione del mondo che tende a riprodurre; l’università, oltre ad una finalità esplicita educativa, ha anche un impatto di educatività nel modo in cui è ed opera. Per questo, credo sia fondamentale per le università essere sempre più consapevoli della visione del mondo che vogliono proporre per la costruzione della realtà mondiale sempre più globalizzata.
La visione del mondo che le università sono chiamate a sviluppare e a trasmettere deve necessariamente comprendere la promozione della fratellanza dei popoli, e li documento di Abu Dhabi è un luminoso esempio di come diverse visioni del mondo possano proporre la fratellanza dei popoli, nella diversità delle culture e delle religioni.
Concretamente come è possibile promuovere la fratellanza nelle nostre università? Certamente, in primo luogo, attraverso l’educazione, insegnando e propagando nel modo specifico all’insegnamento universitario la cultura della fratellanza dei popoli, ma credo che sia altrettanto importante usare la leva dell’educatività che ogni ente storico incarna, partendo dallo sviluppo consapevole e condiviso di una visione del mondo, che ponga la fratellanza al centro della visione condivisa, incarnandola all’interno delle nostre istituzioni, nelle relazioni fra di noi, nell’organizzazione fisica degli spazi, nella promozione di programmi come l’Erasmus, o di incontri inter-religiosi, per fare solo alcuni esempi.
Abbiamo il privilegio di vivere in un’epoca luminosa, e la definisco luminosa perché ci è sempre più evidente che siamo chiamati dalla realtà stessa alla fratellanza dei popoli! Questo privilegio porta con sé una grande responsabilità, che mi auguro noi tutti accogliamo con riconoscenza e impegno comune.
Conferenza LUMSA “Fratellanza umana, pace mondiale e convivenza comune. Il documento di Abu Dhabi e l’università” - Roma, 17 ottobre 2019
fr. Riccardo Lufrani, O.P.
Convento di S. Maria sopra Minerva, Roma
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1. Liberamente tradotto dal francese, cf. Battaillon, L.J., “Les conditions de travail des maîtres de l’université de Paris au XIIIe siècle”, RSFT 67 (1983), p. 418.
2. Basti, G., Logica aletica, deontica e ontologia formale: dalla verità ontica all’obbligo deontico, in Logia e diritto: tra scoperta ed argomentazione. Atti della giornata canonistica interdisciplinare, a cura di P. Gherri e G. Basti, Laterna University Press, Città del Vaticano, 2012, p. 18, nota 9.
3. Ib. p. 18.
4. Ib.
5. Cf. ib.
6. Cf. ib. p. 80-102.
7. Cf. Demaria, T., “Da una economia senza problemi ad una economia coi massimi problemi”, Atti del corso di studio Mid di Roma - Centro Nazareth, 26-30 dicembre 1980, Roma 1980, p. 25-27 e “Rivoluzione industriale e Cristianesimo”, Minidossier cutlurali per una nuova presenza cristiana I, Vicenza sd., § 17.
8. Rm 8, 28.