«Il coraggio, uno (non) se lo può dare»
La 'grazia' del martirio
Che c’entra la citazione del povero don Abbondio dei Promessi Sposi in una riflessione non certo letteraria sul martirio? Lo conosciamo bene il povero curato: l’indifeso ‘vaso di argilla’ costretto a subire (oggi diremmo) la persecuzione psicologica dei bravi – i ‘vasi di ferro’ – che lo costringevano a cedere alla sua volontà, a non essere padrone del suo ministero e gli procuravano nell’animo un indescrivibile sconquasso.
È chiaro che i contesti sono diversi, e don Abbondio non è certamente un santo o ha versato sangue per amore di Cristo! Probabilmente, però, potrebbe rappresentare ognuno di noi in tempi di persecuzione vera e propria. È un mito, infatti, pensare che le persecuzioni cristiane siano un mero ricordo di secoli e secoli fa, poiché la realtà che ci si prospetta davanti è ben diversa quando assistiamo inermi alle raccapriccianti notizie di stragi di cristiani nel mondo, forzatamente posti di fronte al bivio di rinnegare la fede cristiana per essere “salvi”, o morire per Cristo rimanendogli fedeli. Più spaventoso è se noi stessi dovessimo porci quella domanda che abbiamo accantonata per il nostro quieto vivere: «E se capitasse a me?» Proprio qui, forse, il fantasma di don Abbondio potrebbe comparire!
Un non-credente potrebbe pensare a significati un po’ più “umani” del martirio, riducendolo a una forma di giustizia, a un ristabilire l’ordine sociale, un rivendicare qualche diritto. Tuttavia, se usciamo dalla letteratura per entrare nella teologia, dai martiri Santi sappiamo questo: la ragione che sta dietro il martirio è la fede nel Signore Gesù e l’inquietudine della Carità. Non è per un vago ideale che si dà la vita; il martirio ‘perfetto’ non può verificarsi se non nella piena e sincera adesione alla fede cattolica, perché il martire non solo palesa, mediante l’atto stesso del supplizio, il disprezzo di tutti i beni presenti per giungere ai quelli più invisibili e spirituali, ma rivela la necessità di rendere testimonianza (μάρτυς, mártys, significa “testimone”) in un Dio per il quale vale la pena morire, giacché Egli stesso è morto non per un ideale o un’utopia, ma per salvare gli uomini.
Non è, dunque, un macabro romanzo!L’Ordine nostro possiede una grande schiera di martiri, a partire dal nostro protomartire S. Pietro da Verona, ucciso in odium fidei in ambiente cataro, fino al meno conosciuto gruppo di domenicani, sacerdoti e laici (tra cui Ignacio Delgado, Girolamo Hermosilla, Giuseppe Tuan…) uccisi nell’800 in terra di missione – il Vietnam – a causa dell’ostinazione, della durezza di cuore, della resistenza delle popolazioni e delle autorità locali ad accogliere il messaggio cristiano. Lo stesso contesto presentatosi a un altro gruppo di frati domenicani spagnoli, li condusse al martirio ad Almagro, in quella ‘cattolicissima’ Spagna degli anni ’30 che conobbe la guerra civile con l’obbiettivo fin troppo chiaro di cancellare la fede da quella terra.
Cosa pensare, dunque, di questi Santi? Hanno ‘voluto’ il martirio per avere il proprio momento di gloria? Sono per caso supereroi? Forse ci sfugge un fatto importante, che viceversa era ben chiaro al caro S. Tommaso: ciò che i martiri compiono è un vero e proprio atto di virtù. Difatti, giacché il compito della virtù è mantenersi nel bene, che consiste sia nella verità che nella giustizia, il martire è colui che «persiste con fermezza nella verità e nella giustizia contro la violenza dei persecutori» (cfr. S. th., II-II, q.124, a.1). Quel ‘firmiter stet’, ovvero la “fermezza” di cui parla S. Tommaso, si traduce nella virtù cardinale della fortezza, il cui compito è quello di rendere l’uomo stabile, perseverante nella virtù – il “bonum honestum” – nel bene assoluto, anche davanti alle minacce di morte. L’uomo forte non è meramente colui che persevera, ma è colui che ‘esercita’ la virtù della fortezza in tutte le sue sfumature e accezioni, dinanzi ai mali sia grandi che minimi. A buon ragione nell’inno dell’Ufficio dei martiri si canta: «Pœnas cucurrit fortiter et sustulit viriliter – Affrontò con fortezza le sofferenze e le sopportò virilmente». Invece, in un altro inno che recita «…non murmur resonat, non querimonia, sed corde tacito mens bene conscia conservat patientiam – non si ode mormorio, non lamento, ma nel cuore silenzioso l’animo conserva consciamente la pazienza», la pazienza è l’aspetto ‘eroico’ della fortezza, in quanto dona la capacità di sopportare a lungo il male, quando ben sappiamo che spesso è più facile ribellarsi, fino a giungere all’aggressione. Ma il martirio diviene il più grande atto di virtù poiché radicato nella carità, ossia nell’amore smisurato verso Dio. E se la carità – scrive san Paolo – è il «vincolo della perfezione» (Col 3,14), «è evidente – dice S. Tommaso – che il martirio è tra gli atti umani quello più perfetto nel suo genere quale segno della più ardente carità», giacché «un atto virtuoso si può considerare come connesso col suo primo movente, che è l’amore di carità.» (cfr. S. th., II-II, q.124, a.3). Proprio come accade nel dipinto del Baciccio, in testa a questo articolo, nel quale la carità indica alla fortezza come la croce di Cristo e la palma del martirio siano la ragione della sua essenza. Dio stesso ha effuso nei nostri cuori quella carità che non è filantropia, e né amore naturale che certamente è bello e giusto ma non salva; essa si radica nella Verità soprannaturale, molto diversa dalle tante generiche, passeggere ed effimere ‘verità’.
Il coraggio di affrontare la morte non è lodevole per sé stesso, ma solo perché ordinato al fine ultimo della beatitudine nella carità. Ecco perché non si può dare ragione in toto a don Abbondio quando replica quasi balbettando al cardinale Borromeo (cap. XXV): «Il coraggio, uno non se lo può dare» (che, in teoria, non è così evidente, come in apparenza, sapere cosa comporti il coraggio e cosa comporti non averne)! Sono convinto che il coraggio e la tenacia nella tribolazione e nei martirî siano dono gratuito della grazia di Dio. Solamente per virtù della grazia, che non cancella la natura ma la perfeziona, ci è donata la forza della testimonianza usque ad effusionem sanguinis, rifuggendo una certa codardia che sovente può divenire una scusante alla propria pigrizia negli atti virtuosi. Il coraggio, uno se lo può dunque dare… non per nostro merito, ma per grazia! È questa stessa ‘grazia del martirio’ che diede al succitato Ignacio Delgado, la prontezza di sconfiggere la caparbietà, l’insensibilità e l’ignoranza dei suoi carnefici con tali disarmanti parole: «Voi parlate e operate così perché non conoscete la vera religione; se la conosceste, l’abbraccereste. Del resto, poiché volete uccidermi in odio alla religione di cui sono il supremo ministro in questa provincia, fate pure e subito; io ne sono lieto. Perché trattenermi a lungo e dare tanta molestia alle guardie costrette a vigilarmi?.» E chissà… forse se don Abbondio avesse chiesto la grazia di Dio, sarebbe stato più pronto a non cadere vittima di quella piccola ‘persecuzione’ subìta, e così convolare felicemente a nozze i due promessi sposi! A lui mancò la fortezza, l’audacia, il coraggio per la testimonianza della Carità. Al contrario del povero don Abbondio, il martire è il ‘vaso di ferro in mezzo ai vasi di argilla’, perché il bene più grande di questi ‘uomini coraggiosi’ è l’acquisto della piena libertà mediante l’adempimento della promessa del Re dei martiri: «Chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,23). E a buon ragione Tertulliano ebbe a dire che il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani. Non ci resta che acclamare: Vivant Martyres!
fr. Giovanni R. M. Ferro, O.P.
Convento di Santa Maria sopra Minerva