Invito al gioco
Gran parte dei cristiani vede nei teologi degli eruditi che studiano argomenti non accessibili ai comuni mortali. È tempo di smentire questa opinione. Cosa fanno i teologi, in realtà? la risposta è: passano il loro tempo a giocare. E non sono io a dirlo, è nientemeno che il Dottore comune, san Tommaso d’Aquino.
Infatti, nel proemio del suo commento al De hebdomadibus di Boezio, partendo da un passo dell’Ecclesiastico o Siracide (32,15-16) – letto ovviamente nella traduzione latina: “Corri prima nella tua casa, e là invoca, e gioca, e metti in opera le tue idee” (Praecurre prior in domum tuam, et illic advocare, et illic lude, et age conceptiones tuas) – san Tommaso, ci spiega come, prima di tutto, bisogna liberare la propria mente da tutte le preoccupazioni, correndo a ritirarsi nella casa interiore, espellendone tutto ciò che non è contemplazione della sapienza, concentrando tutta la sua attenzione, e come, ciò fatto, si può veramente giocare.
Infatti, la contemplazione della sapienza (e, quindi, di Dio, sapienza suprema) non può trovare miglior termine di paragone, che non il gioco. Ovviamente, con “gioco” non s’intende qui i giochi “interessati”, nei quali si gioca per guadagnare soldi o vincere un premio, ma il gioco spontaneo, disinteressato, come quello dei bambini: i bambini giocano per giocare. Il gioco così inteso, non ha altro scopo se non se stesso, così come la contemplazione di Dio non ha altro scopo se non se stessa. Vogliamo, infatti, conoscere Dio perché è degno, sopra ogni altra cosa, di essere conosciuto, perché il nostro fine è proprio di vederlo così come egli è (1 Gv 3,2), il che, quaggiù, è anticipato in modo molto imperfetto – ricordiamoci della “paglia” di cui parla san Tommaso – ma reale dalla contemplazione.
Per capire bene quel che dice qui san Tommaso, ci si deve liberare dall’idea che la contemplazione cristiana sia qualcosa di straordinario, riservato ai mistici. La contemplazione cristiana, in realtà, riguarda tutto ciò che è finalizzato alla conoscenza del mistero di Dio. a IIae, q. 180, a. 4, ad 3m). La contemplazione così intesa dev’essere di tutti i fedeli, perché tutti devono aspirare a una conoscenza sempre più approfondita di Dio, spinti dall’ardore della carità: quando si ama qualcuno si desidera conoscerlo e, se ne è degno, più lo si conosce più lo si ama: non v’è dubbio che Dio sia degno di esser amato e perciò chi non cerca di acquisirne una conoscenza sempre più profonda e viva, dimostra di non amarlo veramente. Ogni battezzato, come lo insegna san Tommaso, è, a motivo della grazia santificante, un contemplatore: “poiché lo Spirito Santo ci fa amanti di Dio, siamo, per conseguenza, costituiti dallo Spirito Santo contemplatori di Dio” (Summa contra Gentiles, l. 4, c. 22).
Essa, come ogni conoscenza umana, parte dalla percezione delle cose sensibili e conta diversi gradi (sei secondo san Tommaso, che riprende e organizza ciò che diceva Riccardo di San Vittore [De gratia contemplationis, l. 1, c. 6 (PL 196, 70)]) e culmina nella“considerazione delle realtà intelligibili che la ragione non può né scoprire né capire, cioè quelle realtà che riguardano la sublime contemplazione della verità divina, nella quale la contemplazione trova la sua perfezione” (Summa theologiae, IIOvviamente, non tutti possono consacrare la maggior parte della loro vita alla contemplazione divina, come invece fanno i teologi cui accennavo iniziando, e, secondo il detto aristotelico, citato diverse volte di san Tommaso, “il filosofare è meglio del far denaro, ma, per chi manca del necessario, è più desiderabile far denaro” (Topici, l. 3, c. 2 [118a10-11] cit. in Sum. theol., IaIIae, q. 32, a. 3, c.; q. 66, a. 3, c., ecc.). Ma ciò non impedisce che ogni fedele, secondo le proprie capacità e la propria condizione, si debba applicare alla contemplazione divina, in cui, immancabilmente, troverà anche diletto, poiché la conoscenza di Dio è ciò a cui aspira la sua natura intellettuale. E questo diletto è la seconda caratteristica che avvicina la contemplazione al gioco, il quale è occasione di piacere.
Cerchiamo, quindi, di riservare nella nostra vita il tempo per quel gioco che è la contemplazione divina, la quale causa in noi niente meno che “una certa impronta della scienza divina” (Sum. theol., Ia, q. 1, a. 3, ad 2m).
fr. Daniel Ols, O.P.
Convento S. Maria sopra Minerva, Roma