Il sogno di Dio: la comunione con l’uomo
Le parole con le quali gli angeli danno ai pastori la notizia della nascita di Gesù sono queste: “Non temete, vi annuncio una grande gioia che sarà per tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore che è Cristo Signore”. E come segno di questa salvezza proclamano: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini amati dal Signore”.
Sono questi dunque i segni della presenza messianica: la gloria di Dio e la pace per gli uomini. La nostra tendenza però è quella di scindere le due cose: di dare gloria a Dio senza preoccuparci di vivere in pace, di costruire la pace tra di noi, nel nostro mondo; oppure di cercare la pace fondandola su equilibri di forze e interessi contrastanti, ignorando la legge di Dio. Dio non è qualcosa di estraneo alla realtà della vita dell’uomo e la sua incarnazione ne è la prova concreta.
La gloria di Dio è l’uomo vivente, l’uomo che vive nella pace, nella gioia, nella felicità. Natale è l’epilogo di una storia, la storia della salvezza, che è caratterizzata dal desiderio di Dio di venire incontro all’umanità, di ricucire un’alleanza, un rapporto infranto dall’infedeltà e dall’indifferenza umana.
Il sogno di Dio è quello di realizzare una comunione d’amore con l’umanità creata a sua immagine. Per questo, dopo aver inviato i suoi messaggeri, viene di persona: sappiamo che l’incarnazione di Gesù, detto anche l’Emmanuele, è il Dio con noi. Dio si fa uno di noi, e abbraccia in sé tutta l’umanità ferita e sbandata per dare una speranza nuova.
Bisogna ripartire da quella grotta, da quel bambino. I pastori infatti si recarono in quella stalla e lì trovarono “Maria e Giuseppe e il Bambino che giaceva in una mangiatoia”. Il Natale è tutto qui. Raccoglierci attorno a quel Bambino che sta in una mangiatoia perché non c’era posto per lui nell’albergo.
E’ un mistero d’amore inimmaginabile. Noi facciamo bene ad allestire il presepe e a commuoverci di fronte ad esso. Ma questa bella tradizione non deve farci dimenticare la dura realtà ch’essa esprime, quella di una città, Betlemme, che non ha accolto Gesù. “Non c’era posto per loro”. E quante volte anche oggi sentiamo ripetere questa frase! “Non c’è posto per loro, non c’è posto per gli stranieri nei paesi più ricchi, non c’è posto per i poveri, per i malati, per i deboli, per chi non conta, per chi non è come noi…!”A Natale non incontriamo Cristo nell’opulenza del mondo, tra le idolatrie della ricchezza, negli affanni del potere, negli intrighi dei grandi. Lì non c’è Dio. Possiamo trovare Dio nel segno che ha indicato l’angelo: deposto in una mangiatoia, avvolto nelle fasce che una povera mamma di Nazareth gli ha potuto offrire. E allora non cerchiamo Gesù nelle figure dei nostri presepi; bisogna cercarlo nei bambini denutriti, nei poveri, nei malati, nelle vittime della violenza, in tutti coloro per i quali non c’è posto nella nostra società: a Natale Gesù rappresenta e riassume in sé tutti loro.
Questo è il Cristo che è nato a Betlemme e che nasce oggi.
Dio diviene uomo come noi; e noi grazie a Lui, diveniamo figli di Dio. È aperta per noi la possibilità di divenire suoi figli, cioè persone che non si oppongono più a Dio ma si mettono in collaborazione con lui per la costruzione di un mondo diverso, un po’ più pulito e un po’ meno inquinato dal male dell’egoismo.
Buon Natale.
fr. Aldo Tarquini, O.P.
Priore Provinciale
“Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L'importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l'amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita”. (Don Tonino Bello)