Il “secondo modo di pregare” di S. Caterina da Siena
La nostra comunità ha vissuto un momento impegnativo della sua vita. Il trasloco è stato un tempo di entusiasmo e fatica, gioia e dolore. Abbiamo lasciato spazi abitati da secoli e mura ricche di ricordi. Ci siamo gettate dietro le spalle i luoghi che hanno accolto i nostri primi passi nella vita religiosa, che hanno visto nascere e crescere la nostra storia con Dio. Siamo entrate nella “terra promessa” con sentimenti variabili, fatiche non indifferenti, e con il grande desiderio, solo, di seguire ancora una volta Dio, che ci stava chiamando.
Mentre cammino negli spazi luminosi del nuovo monastero, che solo da poco sento finalmente come “casa”, si chiarifica in me il percorso dell’anima domenicana, di ogni anima domenicana, che sia frate, monaca, suora o laico, che Dio chiama a seguirlo nella via della contemplazione. Ed è come se la luce del sole, peraltro così incerta e tardiva in questa primavera, ma pure sufficiente ad illuminare spazi delimitati da ben ampie vetrate, riesca a raggiungere non solo le celle, la chiesa, la biblioteca, i laboratori, il refettorio, ma anche gli spazi interiori dell’anima, che riconosce in quei raggi l’immagine e lo specchio della vera Luce che non conosce tramonto.
Questa luce abbraccia con particolare intensità la chiesa, raggiungendola attraverso la vetrata del presbiterio, che richiama il paesaggio retrostante con un disegno dai colori naturali e tenui, e ricorda il percorso del domenicano: la via della preghiera. E lo fa attraverso un sentiero che, tratteggiato delicatamente, si apre sulla vetrata e si restringe, man mano che si procede con lo sguardo verso l’alto, quasi a spiccare il volo verso mete sconosciute e illimitate. E spinge gli occhi del cuore a fissarsi sull’infinito. Mentre, proprio di fronte alla vetrata stessa, il crocifisso troneggia in alto e suggerisce, ancora, la Via verso quella meta e, insieme, il percorso della preghiera. E proprio verso il crocifisso sono rivolti i dipinti della parete destra della chiesa, opera delle nostre sorelle sr. Maria Pia Fragni e sr. M. Paola Diana Gobbo, che ritraggono i Nove modi di pregare di S. Domenico.
Sappiamo bene che il crocifisso è stato il “libro” su cui, più di ogni altro, San Domenico ha studiato. E Santa Caterina da Siena, sull’esempio del Fondatore, vive la sua vita nell’abbraccio e nella contemplazione del segno più alto della nostra Redenzione. In lei i Nove Modi di pregare, che in Domenico sono raggruppati in tre importanti “momenti”, diventano tre, perché oggetto particolare della contemplazione della santa sono i piedi, il costato e la bocca di Gesù in croce.
Mentre mi lascio avvolgere dalle luci e dalle ombre, dal silenzio e dai colori della chiesa, mi torna in mente qualcosa di ciò che Dio Padre rivela alla domenicana senese quando ella contempla, in particolare, il secondo di questi “modi”: il costato di Cristo Crocifisso. Egli le parla, allora, della vocazione dei consacrati: “Il vostro luogo, dove voi stiate, sia Cristo crocifisso unigenito mio Figliuolo, abitando e nascondendovi nella caverna del costato suo. […] In quello cuore aperto troverete la carità mia e del prossimo vostro” (Dialogo, CXXIV, 1525-1530).
La vita consacrata scaturisce dal Cuore di Cristo e lì dentro germoglia e cresce, per imparare da Lui stesso quell’amore di Dio e del prossimo che tutti, nella Chiesa, sono chiamati a vivere, anche se con modalità e forme di vita differenti. Questa perfezione dell’amore, che è per tutti, viene però come “fotografata”, resa evidente e facilmente “leggibile” nella vita di coloro che seguono il Verbo attraverso la professione dei voti, anche se ciò non assicura loro, certamente, la santità.
La vita consacrata non è, dunque, una fuga dal mondo, ma un entrare e nascondersi nella caverna di quel costato trafitto che è la fonte di ogni grazia, di ogni luce, e della vita e dell’unità della Chiesa. E sembra essenziale, per il religioso, che egli impari ad abitare la cella del cuore, limpida immagine di quel costato: che viva, cioè, in una condizione di continuo raccoglimento, tutto proteso a conoscere se stesso in Dio e Dio in sé, e a vedere Lui in ogni avvenimento. Fuori da questa cella, il religioso è destinato a morire alla propria vocazione e alla grazia, così come avviene al pesce gettato fuori dall’acqua (cfr. Dialogo, CXXV, 1621-1625). Il costato di Cristo, dove perennemente abita, è lo spazio di luce in cui il consacrato diviene per ogni uomo richiamo all’amicizia con Dio.
Il monastero è il luogo in cui il costato di Cristo vuole essere particolarmente visibile. È per tutto l’Ordine come il ricordo, l’immagine di quella cella del cuore che tutti i domenicani, sempre, devono abitare. È lo spazio in cui la misericordia di Cristo e la sua tenerezza per ogni uomo diventano luminosi ed evidenti, attraverso la preghiera incessante delle monache. È il luogo in cui la luce di Gesù si irradia sul mondo.
E mentre, ancora, percorro la casa che in questi mesi Dio ha donato alla nostra comunità, penso che non solo il monastero, ma la comunità stessa diventa immagine di quel costato quando vive con fedeltà la propria chiamata a “stare dentro”, a lasciarsi illuminare da Colui che è la Luce del mondo per irradiare ovunque la sua luce. Arrivo, infatti, al cuore dell’edificio: l’atrio. Qui tutto è reso più chiaro e più soave dai dipinti del paesaggio casentinese. Quando la grazia entra nell’anima, la riempie di luce, e dona quella purità che è propria di quanti vivono la frase dell’Inno alla carità più consona al domenicano: “Non giudicare”. Essi imparano a vedere il mondo e le persone con lo stesso sguardo di Dio e la via della conoscenza è aperta loro proprio dall’astensione da ogni giudizio (cfr. Dialogo C). Ma per arrivare a questo sguardo libero, è necessario stare nella cella del cuore, abitarla, viverla. Caterina chiama questa cella anche “lume di luna” o “notte del conoscimento di sé” (cfr. Lettera n. 104). È il luogo vitale in cui l’anima attende in preghiera l’arrivo dello Spirito Santo che, solo, la renderà capace di amore disinteressato e gratuito verso Dio e gli altri. È il tempo in cui, paurosa e ancora imperfetta, attende in preghiera Colui che, solo, può renderla capace di dare la vita per i fratelli (cfr. Dialogo LXV-LXVI).
Lo aspetta, dunque, vegliando in orazione continua, e intanto cresce in essa il desiderio che Dio sia conosciuto e amato, mentre le persecuzioni, le calunnie e le prove di ogni genere diventano per lei scala che la conduce dentro il luogo della sua vera vita e della luce: il costato di Cristo. Ecco, allora, che proprio nella notte, nelle sconfitte, nella solitudine e in difficoltà di ogni tipo, si rafforza la fede e impara ad amare Dio senza alcun’altro interesse che Lui. Ma questa notte essa la vive perché la luce di Cristo raggiunga tutti gli uomini con il fuoco della predicazione. E perché il mondo si svegli da quel sonno della ragione che è il peccato: “Gravava ormai nella sala il sentimento della notte, quando le paure escono dai decrepiti muri e l’infelicità si fa dolce, quando l’anima batte orgogliosa le ali sopra l’umanità addormentata” (Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari).
Nel secondo modo di pregare, dunque, Caterina contempla la diversità dei carismi, la bellezza della creatività di Dio, che mai si ripete, e insieme l’amore di Cristo, la misericordia, la vita che scaturisce dal suo sangue. In questa esperienza, diventa lei stessa mediatrice di grazia per l’Ordine e per la Chiesa. E contempla la vita consacrata, che nasce proprio da quel costato aperto, dove lei conosce l’infinita misericordia di Dio per il mondo. Ricordiamo, a questo proposito, l’esperienza fortissima e sconvolgente che ella fece con Niccolò di Tuldo. Quando prese tra le mani la testa del condannato a morte che, dopo un’ostinata ribellione a Dio e alla Chiesa, attraverso di lei aveva finalmente incontrato il Signore, e il sangue di lui le si riversò addosso, Caterina “entrò” dentro il Cuore di Cristo e conobbe il Suo amore e la Sua misericordia infinita per ogni uomo. E conobbe di più se stessa, acquisendo una consapevolezza sempre più profonda della propria chiamata ad essere canale di questa stessa misericordia. Le sue mani di donna sorressero la testa di un uomo che aveva sbagliato, nel momento in cui veniva decapitato; di un uomo che proprio attraverso l’amicizia e la compassione della santa, che ella aveva attinto dal Cuore stesso di Cristo, aveva finalmente incontrato la tenerezza e la larghezza della misericordia di Dio. Fu un’esperienza per lei trasformante e indimenticabile. Da quel momento, Caterina avrebbe continuamente parlato del sangue di Gesù, sparso per la salvezza di ogni uomo. E subito raccontò questa esperienza al Beato Raimondo da Capua (cfr. Lettera n. 273), perché anche lui potesse imparare ad abitare continuamente il costato di Cristo.
Ma cosa significa, ancora, che “in quello cuore aperto troverete la carità mia e del prossimo vostro”? C’è un racconto del vangelo che Caterina usa (cfr. Dialogo, CLIX) per esplicitare il dono specifico della vita religiosa all’interno dell’Ordine. Pietro domanda a Gesù: “Maestro, noi abbiamo lasciato ogni cosa per tuo amore e abbiamo seguito te: cosa ci darai?”. E la Verità eterna le risponde: “Vi darò il cento per uno e la vita eterna” (cfr. Mt 19,27-30; Mc 10,28-30; Lc 18,28-30). E Caterina spiega. Cosa è questo “cento”? Si tratta forse di ricchezze? No! C’è qualcosa che l’uomo ha e che è più preziosa di ogni altra cosa: la propria volontà. Quando questa volontà, che non è altro che la libertà, viene indirizzata a Dio solo, essa diviene l’uno che la creatura umana dona a Dio. La persona sceglie liberamente di mettere Dio al primo posto nella sua vita, e Dio cosa le dà in cambio? Il “cento per uno”: ciò cui non puoi aggiungere altro, perché è in sé una pienezza. E questa pienezza noi tutti sappiamo cosa sia, perché sentiamo che il nostro cuore umano ci porta ad averne sempre sete: è l’amore. A chi sceglie l’obbedienza domenicana, Dio promette la pienezza dell’amore. Insieme alla vita eterna, di cui ancora parla questo racconto del vangelo, e che non è altro che la carità. “Solo la carità”, infatti, “entra come donna […], come regina” in cielo (Dialogo, CLX, 874; 881-882).
Rientrando in cella, con Caterina, guardo Gesù in croce e contemplo il suo costato, sapendo di trovare, lì dentro, non solo me stessa in Lui, ma tutti i fratelli e le sorelle che, in tutto il mondo, donano la loro vita per la predicazione del vangelo. E mi ricordo di una lettera della santa, l’ultima che scrisse a Raimondo, dal proprio letto di morte. Egli si trovava lontano da Roma e lei sapeva bene che non lo avrebbe mai più rivisto. Dalle righe scritte, immagino, con mano ormai debole e tremolante, ma pure con grande fermezza di cuore, emerge l’invito, dolce e forte ad un tempo, rivolto al suo padre e figlio spirituale, ad abitare la cella, senza uscirne mai. E a non conformarsi ai costumi del secolo, ma a prendere il cibo delle anime abbracciando l’umile e fedele orazione.
E dopo aver lamentato il proprio dolore di essere privata del conforto della presenza del suo padre spirituale, conclude: “E non pigliate pena perché corporalmente siamo separati l’uno dall’altro; e poniamoché a me fusse di grandissima consolazione, maggiore m’è la consolazione e l’allegrezza di vedere il frutto che fate nella santa Chiesa” (Lettera 373).
Proprio dentro la cella del cuore, dunque, l’Ordine diviene veramente fecondo. Una cella che sembra allargare i propri spazi e i propri confini fino a farli coincidere con quelli della Chiesa intera. L’offerta di Caterina per il Corpo mistico di Cristo coincide, infatti, con la piena donazione di Raimondo all’Ordine. E questa profonda comunione e unità nel progetto del Padre su di loro, che scaturisce dall’Eucaristia, li rende realmente fecondi. Canali di misericordia per tutti gli uomini assetati di vita e di verità.
sr. Mirella Caterina Soro, O.P.
Monastero S. Maria della neve e S. Domenico