In che cosa consiste la santità? Il contributo di Tommaso d'Aquino
San Tommaso d’Aquino, la cui festa è celebrata il 28 gennaio, fu un santo alquanto originale per la sua epoca. Mentre, infatti, le vite dei santi medievali si dilungano generalmente su descrizioni compiacenti delle penitenze, delle macerazioni alle quali essi si sottomettevano – pensiamo a san Domenico che si dava la “disciplina” con una catena di ferro, dormiva per terra, ecc. –, non troviamo niente di tutto questo nella vita di san Tommaso.
Certamente, egli praticava le austerità previste dalle Costituzioni dell’Ordine (che, all’epoca, non erano leggere), ma, a quanto sembra, niente più e colui che oggi chiameremmo il postulatore della sua causa di canonizzazione, Guglielmo di Tocco, ha dovuto tralasciare, nella sua biografia di Tommaso, questo topos agiografico.
Se ci chiediamo il perché di questo comportamento dell’Aquinate, troveremo la risposta nella sua dottrina sulla santità, dottrina che egli stesso ha riassunto in alcune parole assai semplici: In hoc est sanctitas hominis quod ad Deum vadat « In questo consiste la santità dell’uomo: che vada verso Dio » (Super ev. Ioannis, c. 13, lect.1, n. 4 [Marietti, n. 1743]).
Per quanto sia stringata questa definizione è ricca d’insegnamenti.
Ci manifesta, prima di tutto, cosa non è la santità. Non consiste nelle penitenze e le macerazioni, non consiste nelle opere buone, non consiste nemmeno nelle virtù. E poi, ci dice che cosa è la santità: essa consiste nella relazione con Dio, nel prender Dio come fine. Se si vuole scoprire meglio la santità, sarà quindi necessario precisare la natura di questa relazione con Dio. San Tommaso lo fa nella Summa theologiae, quando scrive: sanctitas dicitur per quam mens hominis seipsam et suos actus applicat Deo « si chiama santità ciò per cui la mente dell’uomo applica se stessa e i suoi atti a Dio » (IIa IIae, q. 81, a. 8, c.). Qui, in poche parole tutto è precisato. Cerchiamo dunque di approfondire un po’ questa definizione.
In primo luogo, c’è da notare la parola mens « mente »: l’uomo deve entrare in relazione con Dio con ciò che lo qualifica come uomo, distinguendolo dagli altri animali, cioè con la sua mente, sede della sua razionalità. La santità non una questione di affettività, di sentimenti, anche se, senza dubbio, ridonda nella sfera affettiva, passionale; è una questione d’intelletto e di volontà. In secondo luogo, si deve precisare il significato della parola applicat « applica ». In altri testi affini al nostro, san Tommaso usa l’espressione refert in Deum « riferisce, riporta a Dio ». Nei due casi, il senso non è dubbio: si tratta di prender Dio come fine.
In terzo luogo, san Tommaso ci dice che Dio deve essere il fine della nostra mente e dei suoi atti. Si tratta qui di una importante distinzione fra l’attività della mente in se stessa ossia gli atti propri, immanenti ed eliciti della mente: conoscere e volere e gli atti che la mente comanda, detti atti imperati, come, per esempio, l’insegnare o il fare l’elemosina. Prima di tutto, dunque, la mente nella sua attività propria deve prender Dio come fine, vale a dire impegnarsi per conoscere e per volere (cioè per amare, poiché la volontà è mossa dal bene che le presenta l’intelletto) Dio. Così facendo, l’uomo diventa ad immagine di Dio perché la sua attività intellettuale ha lo stesso fine che ha l’attività immanente di Dio, cioè Dio stesso (v. Ia, q. 93, a. 4, c.). Il santo, quindi, cerca di conoscere Dio e, poiché scopre così quanto Dio sia degno di amore, ama Dio e si crea allora un circolo: più si conosce Dio, più si capisce quanto è degno di esser amato e più lo si ama; ma più lo si ama, più si desidera di conoscerlo meglio e così via.
Gli altri atti dell’uomo, i quali hanno un fine immediato che non è né può essere Dio, saranno tuttavia allora ordinati a Dio come fine ultimo, di modo che il santo autentico è colui la cui vita trova senso soltanto in riferimento a Dio (poiché è il fine a dare senso): questo si verifica perfettamente nel caso di Gesù Cristo (v. IIIa, q. 19, a. 2). È importante però notare che questa conoscenza e questo amore per Dio, che abbiamo brevemente descritti, possono esser nell’uomo soltanto come frutto della grazia. Non si tratta, infatti, di acquisire una certa conoscenza di Dio e di amarlo in qualche modo, ma di fare di Dio « il fine ultimo di tutta la nostra vita e questo si può fare solo per grazia », a motivo della corruzione della natura dovuta al peccato originale (v. Ia IIae, q. 109, a. 3, c.). La santità è quindi frutto della grazia detta appunto santificante e questa grazia, detta anche grazia delle virtù e dei doni, ci spinge non solo a conoscere e amare Dio sempre meglio, ma anche, ovviamente, a vivere in modo coerente con questo fine, poiché quando si ama qualcuno si è felice di fare ciò che lui ci chiede e si cerca di non fare ciò a lui non piace. Ritroviamo dunque qui, nella loro giusta prospettiva, le opere di penitenza e le opere di misericordia, ma dobbiamo sottolineare come queste opere abbiano valore agli occhi di Dio solo se fatte avendo come fine ultimo Dio stesso (quel che si esprime dicendo che si deve amare il prossimo per amore di Dio); se hanno un altro fine, un fine, cioè, puramente naturale, non sono frutto della grazia e non sono opere di santità.
Così veniamo a capire che, agli occhi di Dio, ciò che fa il valore delle nostre opere non è la loro difficoltà oggettiva, ma è la carità, ossia l’amore per Dio, con cui esse sono compiute, sicché santa Teresa di Lisieux facendo il bucato per gli anziani della casa di ricovero faceva presumibilmente un’opera più grande e più meritoria che non un monaco irlandese impegnato a recitare tre salteri interi in una tinozza di acqua gelata.
Infine, questo fa anche capire come le opere non debbano essere assolutizzate: non sono dei fini ultimi, ma hanno per fine ultimo Dio; debbono, quindi, essere compiute avendo sempre di vista ciò che Dio vuole da noi, cioè il nostro dovere di stato. Se san Tommaso non si sottometteva a penitenze straordinarie, possiamo presumere che ciò era dovuto all’acuta coscienza che aveva di doversi consacrare totalmente alla sua missione di teologo: insegnare le verità divine, scrivere di Dio, era questa la missione affidatagli da Dio e in vista di Dio e sappiamo con quanto impegno e quanta dedizione egli l’ha riempita; egli stesso ce l’ha detto, usando le parole di sant’Ilario: « ho coscienza che il dovere precipuo della mia vita nei riguardi di Dio è che ogni mia parola e ogni mio pensiero parlino di lui » (Summa contra Gentiles, l. 1, c. 2 [citazione di sant’Ilario, De trinitate, l. 1, c. 37]).
fr. Daniel Ols, O.P.
Convento S. Maria sopra Minerva, Roma